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Storia, Cultura e Società

RIPENSARE L’ISTRUZIONE

DEGLI ADULTI

di  Gennaro Lopez
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Com’è noto, un documento particolarmente caro a Tullio De Mauro furono le “Dieci tesi per un’educazione linguistica democratica”. Nella seconda di quelle tesi si afferma, tra l’altro, che “lo sviluppo delle capacità linguistiche affonda le sue radici nello sviluppo di tutt’intero l'essere umano, dall'età infantile all’età adulta”. Le considerazioni che vi propongo si fondano, appunto, sulla convinzione che quando trattiamo di educazione o istruzione degli adulti non d’altro ci occupiamo se non dello “sviluppo tutt’intero dell’essere umano” attraverso quel che viene definito come “apprendimento permanente”. E penso che, ancora in ricordo di Tullio De Mauro, sia opportuno, secondo un costume che gli era proprio, sviluppare riflessioni e proposte a partire dai dati, dalla nuda e tante volte cruda realtà dei dati.

Al 31 dicembre 2020 la popolazione in Italia contava 59.236.213 residenti, in calo dello 0,7% rispetto al 2019 (-405.275 individui). L’indice di vecchiaia per il 2021 ci dice che abbiamo 182,6 anziani (ultrasessantacinquenni) ogni 100 giovani (di età compresa entro i 14 anni). Questo dato, di per sé drammatico, diventerebbe ancora più preoccupante per il futuro del Paese, se dessimo spazio alla convinzione di chi che fa corrispondere al calo demografico un parallelo calo del bisogno di istruzione, dei bisogni educativi e formativi, magari per risparmiare su queste voci del bilancio dello Stato, ostinandosi a non farle rientrare nel capitolo “investimenti”.

I gravi e diffusi deficit culturali e di istruzione presenti nella popolazione adulta italiana hanno la loro radice nel sistema scolastico.

I dati ISTAT 2019 ci dicono che in Italia soltanto il 62,2% delle persone tra i 25 e i 64 anni possiede il diploma di scuola secondaria superiore. Nell’UE il dato è del 78,7% (divario: 16,5%). In Germania 86,6%; in Francia 80,4%. Naturalmente il dato non è omogeneo su tutto il territorio: al Sud la percentuale è del 54%, al Nord del 65,7%, a ricordarci il tema sempre più drammatico delle disuguaglianze anche in questo ambito. Per la stessa fascia d’età (25-64, comunemente definita come “popolazione attiva”), la percentuale di coloro che hanno acquisito un titolo di studio terziario è del 19,6% contro il 33,2% dell’UE. Precediamo soltanto la Romania. Anche in questo caso segnalo che al Sud la percentuale è del 21,2%, nel resto del Paese di oltre dieci punti in più. Nel Mezzogiorno, dunque, poco più della metà degli adulti ha conseguito almeno il diploma di scuola secondaria superiore e nemmeno uno su sei ha raggiunto un titolo terziario. Va da sé che tutto questo si riflette sui livelli di occupazione: basti considerare che il tasso di occupazione dei laureati è di quasi 20 punti più elevato di quello relativo a chi è in possesso di un titolo secondario superiore e di quasi 30 punti di quello relativo a chi possiede un titolo secondario inferiore. Va anche detto che occupazioni con povero contenuto di competenze e un sistema di imprese a basso livello di innovazione non contribuiscono certo a fissare più ambiziosi traguardi di istruzione e scolarizzazione.

Occorre, comunque, fare i conti col fenomeno dell’abbandono precoce del sistema di istruzione e formazione. Soffermiamoci qui sulla fascia anagrafica dei 18-24enni: coloro che possiedono al più un titolo secondario inferiore e sono già fuori dal sistema di istruzione e formazione (ci misuriamo qui con uno degli indicatori della Strategia Europa2020, il cui limite era fissato al 10%.), in Italia nel 2019 erano il 13,5% (per un totale di 561.000 giovani), ma già sappiamo che il dato è molto peggiorato per effetto della pandemia. Fonte: Istat, dati 2019.

A conferma della tesi che qui mi permetto di sostenere: che l’educazione o istruzione degli adulti va intesa come strettamente connessa al sistema scolastico e al suo funzionamento, faccio osservare come i dati PISA (Programme for International Student Assessment), che confermano in modo ricorrente un posizionamento piuttosto modesto del nostro Paese nelle rilevazioni delle competenze dei quindicenni scolarizzati, si rispecchiano poi puntualmente nelle rilevazioni delle competenze delle persone adulte. Ce lo dicono i risultati dell’indagine PIAAC (Programme for the International Assessment of Adult Competencies).

Nelle competenze di alfabetizzazione il punteggio medio degli adulti italiani è pari a 250 (su una scala che va da 0 a 500), decisamente inferiore rispetto alla media OCSE, pari a 273. Nelle competenze matematiche il punteggio medio degli adulti italiani è pari a 247, inferiore rispetto alla media OCSE, pari a 269. Viene inoltre individuata una scala con 6 diversi livelli di competenze (da -1 a 5): il raggiungimento del livello 3 è considerato come minimo indispensabile per un positivo inserimento nelle dinamiche sociali, economiche e occupazionali del XXI secolo. I valori registrati per gli adulti italiani, che qui riporto in forma aggregata, sono del 29,8% per i livelli 3 e 4 e del 70,2% per i livelli da -1 a 2.  Fonte: ISFOL

Com’è ovvio e intuitivo, i livelli di istruzione incidono anche su quelli culturali. Nel 2019 la quota di spesa delle famiglie italiane destinata alla cultura (6,7%) è decisamente inferiore a quella dei Paesi UE (9,1%). Aggiungo che l’Italia, con il 49% di persone che leggono giornali, informazioni e riviste su Internet, occupa la terzultima posizione nella graduatoria europea, mentre la Finlandia (90%) è al primo posto. La media dei Paesi UE è del 66%.  Fonte: ISTAT (dati 2019 e 2020)

Dai dati che vi ho esposto risulta abbastanza evidente che parlare consapevolmente di educazione e istruzione degli adulti significa dover affrontare un problema di enormi dimensioni. E ci si pone la domanda classica: che fare?

La risposta istituzionale, come sappiamo, è affidata prevalentemente ai Centri provinciali per l’istruzione degli adulti (CPIA). Ma domandiamoci: può una rete di 130 centri per circa 230.000 iscritti su tutto il territorio nazionale considerarsi adeguata a fronteggiare l’emergenza che ci sta di fronte?

L’interrogativo è ovviamente retorico. Va aggiunto, peraltro, che la distribuzione territoriale dei centri risponde ad una logica inaccettabile. I centri attivati, con dati aggregati per macro-aree, sono: al nord 61 (47%), al centro 28 (21,5%), al sud 26 (20%), nelle isole 15 (11,5%). Una distribuzione che oggettivamente avalla anziché contrastare le disuguaglianze territoriali. Se prendiamo in considerazione anche la formazione professionale, gli adulti d’età compresa tra i 25 e i 64 anni che frequentano un corso di studi o di formazione professionale non vanno oltre il 7% del totale.

Affrontare questo problema con la dovuta serietà significa innanzi tutto, a mio avviso, disporsi ad un cambio di paradigma, ad un radicale mutamento di strategia. Invito a riflettere su questo apparentemente banale elemento strutturale: il sistema è pensato e organizzato per fornire una risposta alla “domanda” di istruzione e formazione, ma non lo è affatto per intervenire sul “bisogno” di istruzione (quello evidenziato dai dati statistici che ho segnalato). Questa distinzione tra domanda e bisogno è fondamentale per ri-pensare e ri-organizzare l’intero sistema.

Coloro che si rivolgono ai CPIA o che si iscrivono ad un qualunque corso di formazione professionale esprimono una domanda di istruzione generalmente motivata dalla necessità di acquisire certificazioni di competenze funzionali ad esigenze di lavoro o a processi di integrazione. Si tratta di una ristrettissima minoranza della popolazione adulta. Il bisogno di istruzione riguarda viceversa gran parte della popolazione adulta, ma si tratta di un bisogno che resta in larga misura sommerso e inespresso. Del resto, non è un caso che negli ultimi anni la tipologia di utenza dei CPIA sia radicalmente cambiata: oggi ci sono molti richiedenti asilo, minori stranieri non accompagnati, insieme a tanti deboli scolarizzati italiani (in particolare in carcere, spesso analfabeti) e immigrati di tipo economico. Ci sono anche molti studenti italiani giovani, provenienti dalla “scuola del mattino” i quali, una volta bocciati, entrano nei CPIA come ultima possibilità di conseguire una qualifica. Si tratta di un’utenza particolarmente fragile perché, se non seguita opportunamente, rischia di sommare all’insuccesso iniziale altri insuccessi e di arrendersi definitivamente. L’adulto che frequenta i CPIA (l’utente–tipo dell’IdA italiana) è prevalentemente straniero, per lo più non italofono o scarsamente tale. Intendiamoci, in questi centri si svolge un’attività estremamente preziosa, là dove, attraverso l’insegnamento e l’apprendimento della nostra lingua, si facilita l’espressione del sé, si incoraggiano processi di autostima e di relazione con gli altri, rompendo le barriere dell’isolamento culturale. Tutto questo va bene, ma la sfida più ambiziosa, da porre al centro di una nuova strategia, è quella di fare emergere il bisogno di istruzione per trasformarlo in domanda, da un lato; dall’altro lato, quella di destinare strutture e risorse ad una effettiva capacità della Repubblica di corrispondere a bisogni di istruzione e formazione di massa della popolazione adulta.

Detto in sintesi, occorre rendere effettivo, strutturale e universale l’apprendimento permanente e consentire, ad ogni persona che lo desideri, di svolgere per tutto l’arco della vita la duplice funzione dell’insegnamento e dell’apprendimento, perché ognuno di noi ha – sempre - qualcosa da insegnare e molto da imparare.

Una tale visione dell’educazione o istruzione degli adulti comporta l’avvio di processi fortemente innovativi, possibili soltanto a condizione che siano sostenuti da una forte e convinta volontà politica. Penso, ad esempio, che sarebbe necessario formare figure professionali di tipo nuovo («facilitatori di processo»): operatori della conoscenza che siano in grado, sul territorio, di creare e animare circuiti e relazioni di insegnamento/apprendimento sulla base di piani elaborati dalle istituzioni scolastiche.

Il riferimento alle istituzioni scolastiche non è ovviamente casuale, perché un’istruzione degli adulti intesa in modo radicalmente innovativo dovrebbe consentire di rilanciare il rapporto tra scuola e territorio a condizione che:

  • alla scuola vengano attribuite responsabilità e risorse (umane e materiali) ai fini dell’innalzamento dei livelli di istruzione dell’insieme della popolazione (non solo di quella scolastica);

  • il piano dell’offerta formativa dell’istituzione scolastica venga elaborato alla luce nella nuova funzione e dei nuovi compiti, guardi cioè ai bisogni formativi del territorio di pertinenza, e si avvalga delle necessarie competenze scientifiche, in particolare di carattere statistico e pedagogico.

Forse questa ipotesi di lavoro potrà apparire a qualcuno eccessivamente ambiziosa o addirittura utopistica. Credo però che sia proprio questo nostro tempo, così critico, difficile e complesso, a richiedere che lo si affronti proponendosi traguardi ambiziosi e, se occorre, persino utopistici.

In fondo, la meta alla quale aneliamo non sta sulla luna, ma proprio qui tra noi, anche se nascosta e svilita: una società che sia al tempo stesso educante ed educata, una cittadinanza sempre più consapevole, perciò sempre più democratica.

    Questo semplicemente vogliamo.

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