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PER PAGLIARANI

Pagliarani: la poesia come una catena continuamente spezzata

di Mario Lunetta

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     L’8 marzo del 2012 cieco e gobbo Elio Pagliarani ci ha detto silenziosamente addio, come può dire addio una pietra miliare che non sia solo un’indicazione ma un segnavia perentorio, per le cose della poesia e della vita, che solo troppe guide poco affidabili insistono a separare drasticamente producendo non pulizia dialettica ma confusione, magari interessata.

     L’autore della Ragazza Carla (1960), che è stato esemplarmente circoscritto in un libro come La poesia italiana nel Novecento (Laterza, 1999) da Fausto Curi a partire dalle sue prime prove (Cronache e altre poesie, 1954; Inventario privato, 1959) con un’insistenza molto acuta sulla particolarissima “narratività” della sua scrittura (“La narratività della poesia di Pagliarani sta non tanto nel semplice ricorso alla deissi personale quanto nel singolare dialogismo che caratterizza quella poesia e nella creazione di personaggi che non sono proiezioni del soggetto bensì vivono di una loro autonoma vita. Accanto a luoghi in cui nasce un dialogo vero e proprio ne stanno infatti altri in cui la sola voce del personaggio-poeta ne implica altre che non giungono a farsi voci di personaggi eppure dispongono di una vitalità irrefutabile. Pagliarani insomma provoca la costituzione di un dialogo incipiente e incompiuto, che non ha nulla di spettrale eppure non esiste; o meglio esiste come inizio, come possibilità, come concreto modello dialogico. Ciò che preme soprattutto a Pagliarani è trasformare la poesia da soliloquio lirico in una forma intensa di comunicazione e i dialoghi potenziali che egli intreccia servono appunto a questo scopo ma anche a elaborare un generale paradigma comunicativo”.

     Proprio grazie a questa secca frattura con l’eredità ermetica tanto dura a morire, Elio Pagliarani è tra i pochi poeti italiani del nostro secondo Novecento che si tengono stretti alla convinzione, sempre perseguita in re con grande coerenza, che la poesia abbia il diritto e la facoltà di dire tutto, senza rifugiarsi in ghetti privilegiati, e che le sue reticenze, se mai ve ne siano, debbano essere non di natura tematica ma di natura meramente tecnico-espressiva: intransigentemente, perfino violentemente funzionali al discorso, insomma. In questo senso, Pagliarani è anche (e profondamente) un poeta politico.

     Da molto tempo si parla da noi, perfino con eccessiva leziosità, della legittimità o meno che la parola poetica ha di riempirsi di ragioni civili e politiche, dando poi sempre, alla fine, massiccia preminenza all’effetto lirico. Ecco perché quella che Pagliarani da sempre esprime con appassionata determinazione e con forza così spesso straordinaria, cioè a dire l’interconnessione inesorabile che corre sempre tra linguaggio e totalità del reale, è restata (e ancora oggi resta) una posizione minoritaria. Posizione minoritaria ma fertile: la sola – credo – capace di contenere ricchezza di avvenire, in quanto impegnata a lavorare nelle intersezioni e nei crepacci in cui cronaca e esperienza individuale si illuminano, o si rompono le ossa, dentro l’enorme cinodromo che si chiama storia. Così, per esempio, soprattutto per questi motivi, un libro della seconda maturità di Pagliarani come La ballata di Rudi (Marsilio, 1995) risulta, in termini perentori, l’allegoria frantumata (quasi un puzzle costruito con spezzoni di film) di quattro decenni di vicende italiane.

     E’ allora, la Ballata, che serve – sul filo teso del testo di Pagliarani – anche a ripercorrere le possibilità che la nostra poesia avrebbe avuto di aprirsi alla dimensione collettiva e generale, magari pure nel senso della satura montaliana debitamente corretta e alterata, e che troppe volte ha sprecato limitandosi all’auscultazione esaltata o depressa delle proprie nevrosi liriche. Sarebbe entrato in crisi il “sussurrato” tradizionale, avrebbe ripreso forza l’alternativa  di un’ipotesi plurilinguistica e “materialistica”.

    

     La ballata di Rudi è una prova di grande, innaturale natura nel percorso della nostra poesia secondonovecentesca perché sta invece a dimostrare le possibilità alterne (e antagonistiche) che il linguaggio poetico ha di esplorare e di esperire soluzioni forti, visionarie e straniate in questa dimensione plurale. Lo sperimentalismo di Pagliarani vive da una parte di un’aggressiva vitalità istintuale, dall’altra di una salda coscienza teorica. Nel Manuale di poesia sperimentale, che Pagliarani e Guido Guglielmi curarono nel 1966, c’è un’affermazione, una sorta di dichiarazione di intenti, alla quale mi pare che il poeta di Rosso corpo lingua non sia mai venuto meno. Quando nel Manuale si affrontano le problematiche e il ruolo di “Officina”, ad esempio, si denunciano con molta nettezza i limiti della rivista bolognese, pur riconoscendole il merito di aver rilanciato in anni ben poco propizi l’opzione sperimentale: quelli di non aver tagliato brutalmente il cordone ombelicale col ricatto dell’anima bella, nel senso che permane negli officineschi la visione del poeta che continua a celebrare la propria soggettività infelice anche quando si misura con tematiche aspre (di tipo sociale, di tipo immediatamente politico) e con le contraddizioni laceranti che segnano già da quegli anni di fresco dopoguerra la crescita convulsa di questo paese.

     Pagliarani e Guglielmi sono, al contrario, per una poesia che col massimo di oggettività attraversi questa realtà, queste contraddizioni, questi manques: per cui il linguaggio è obbligato a diventare immediatamente un elemento portante di forte presenza materiale, un fatto di azione, qualcosa insomma che non si nega al coinvolgimento nel caos, e sconta in se stesso, nel proprio stesso corpo, insufficienze, lesioni, tensioni drammatiche, bave cronistiche, fetori, memorie, aspirazioni di un inferno in cui gli angeli non sono quelli delle canzonette o dei fotoromanzi. Li sconta, evidentemente, per forza di espressività anche dura, anche intrattabile. La lingua in bocca col lettore ne è esclusa.

     Così, è interessante vedere come Pagliarani, fin dai suoi primi esperimenti poetici degli anni Cinquanta del secolo scorso, risolti poi splendidamente con La ragazza Carla all’inizio dei Sessanta, bruci da subito le suggestioni di appeasement lirico-confessionale che pur galleggiano qua e là nelle sue primissime prove e intenzioni, per rovesciarne il senso in modo aspro, duramente dialettico, affinché tutte le urgenze vengano risolte in una marcia linguistica assolutamente transitiva, in un orizzonte sfondato, in un baratro a spirali. La convinzione teorica di Pagliarani secondo la quale la poesia può, anzi deve dire tutto - come rilevavo all’inizio di questo intervento – aveva ormai trovato la propria verifica nella praxis produttiva; e il discorso vale, naturalmente, anche per i suoi sodali e compagni di cordata tra esperienza dei Novissimi e Neoavanguardia. Un libro come La ballata di Rudi ed altri di Pagliarani (Lezione di fisica; Lezione di fisica e fecaloro) sono appunto dei testi che dimostrano come lo spettro esplorato e preso in considerazione dal linguaggio poetico sia tendenzialmente infinito. Così, perfino le sue origini e la sua antropologia romagnola vengono usate come una sorta di schermo continuamente dardeggiato e attraversato da lampi violenti, sulfurei, sgradevoli. Anche la soggettività del poeta, la sua fisionomia esistenziale e umana, vengono sempre messe in discussione “dal basso” e trattate in termini tutt’altro che celebrativi: posizione che in concreto riafferma il costante rifiuto di Pagliarani per quel lirismo che invece continua a pesare su troppa produzione in versi, e che è ancor oggi sicuramente dominante nel panorama della poesia italiana.

     Cosa accade, quindi, nella Ballata di Rudi? Accade che anche il linguaggio è una macchina: ma non mascherata, non sterile né celibe. E’ una macchina che afferra e macina dentro se stessa una quantità di elementi e di situazioni, di dati e di riferimenti, di eventi e di ricordi che slittano dal privato al ri-vissuto (mai in chiave nostalgica, peraltro), dal processo politico-sociale a squarci di economia, di finanza, di scienza e tecnica, con prelievi di gerghi specialistici rimasticati come in un magma dilatato, in un bolo coriaceo filtrato da una visione lucidissima carica di amaro pathos; una visione, un mood anche irosi, anche forsennati – e questo in forza di quella caratteristica tipica della lingua di Pagliarani, che è di essere appunto forsennatamente ritmica. Ecco allora la cadenza continua, ribadita, di frequenza anche cupa, che i suoi testi poematici hanno: un andamento di danza vorticosa segnata da percussioni di martello pneumatico. Il “racconto in versi” di Pagliarani è certamente qualcosa che di per sé nega l’afflato del canto tenorile e al contrario fa sì che il poeta rinunci al suo esplicito super-ego, per farsi vettore al tempo stesso critico e inventivo di questa stessa realtà in moto (perpetuo) e delle possibilità testarde di conoscerla e contrastarla.

     Ecco perché La ballata di Rudi, che lo stesso Pagliarani ha definito una volta come una sorta di tavola di raccordo tra vari elementi del suo lavoro e della sua ispirazione – mi si passi la parola pericolosissima e insidiosa, che qui vuol significare soltanto una necessità insopprimibile -, è un testo che appunto lavora a tutto campo, una “meccanica” (per dirla con Gadda) che non si dà riposo, che non smette mai di interrogare se stessa, di provocarsi, di ritrovare i suoi bàndoli sparsi: e lo fa in modi che per natura sua propria e per la natura del suo autore non possono che risultare di specie magmatica, densa e opaca a prima vista, ma in realtà un istante dopo nitidi e trasparenti. Allora il “racconto in versi” assume una dimensione di costante fortemente reiterata. Ci sono situazioni che si ripetono, versi che vengono utilizzati e usati (si direbbe quasi manualmente, da grande, peritissimo operaio della parola-pensiero) in modi e contesti diversi, con accostamenti plurimi che ne determinano ogni volta la differenza di senso, di tono, di spessore. Un tratto splendido fra i tanti revenants (che è poi quello che chiude il libro, riappare due o tre volte in termini lievemente spostati, con una variatio che ne altera anche l’asse concettuale e metaforico: “Ma dobbiamo continuare / come se / non avesse senso pensare / che s’appassisca il mare”. Altre volte invece questa stessa quartina non ha una dimensione così vibratamente antagonistica, ma più descrittiva, più piana. Non certamente più piatta, tuttavia.

    

     Ho elencato alquanto disordinatamente le ragioni per cui credo che questo ricchissimo testo poematico costituisca una pietra di paragone molto importante per tutti, non soltanto per chi legge e scrive poesia: perché è un testo che attraversa con efficacia e vitalità ostinatamente discorsiva e sintetica (con un netto privilegio per il taglio metonimico e straniato) la cronaca e la storia italiana (e qua e là, mondiale) per spezzoni emblematici dai tardi anni Quaranta fino alle stagioni più recenti; e i vari personaggi, da Rudi ad Aldo a tutti gli altri, celebri e oscuri, perfino a quelli che appartengono alla mitologia privata del poeta, prendono spessore allegorico, si animano dell’effimera “eternità” del nostro vivere in una dimensione che potremmo definire tragicomica, perché il senso del grottesco non è certo un elemento secondario nella scrittura raffinata e “plebea” di Pagliarani. E’ un senso del grottesco assai spesso dilatato addirittura nello spazio dell’orizzonte cinematografico, perché l’occhio di Pagliarani è un occhio di mosca, uno strumento che riesce a vedere nello stesso momento una quantità di cose tra loro disorganiche: ecco quindi che il glùtine del linguaggio e delle situazioni cresce continuamente su se stesso, e ciò che determina una cadenza  così forte (forsennata, dicevo poco sopra) è appunto il ritmo, la necessità di un ritmo scazonte non di rado crudamente atonale e tuttavia scandito, della sonorità decisa e mai accattivante a cui egli si mostra da sempre molto attento, dedicando al problema anche alcuni lucidi interventi teorico-critici.

     Mi piace a questo punto ricordare che un saggio di Tommaseo intitolato Del numero è appunto centrato sulle questioni del ritmo nella scrittura poetica, e il dalmata vi raccomanda di seguire un paradosso: è bene, quanto più si tràttino argomenti gravi e pesanti, adottare un ritmo veloce, una scansione rapida, leggera. Bene. Proprio su questa contraddizione attiva si innesta molto consapevolmente anche il discorso ritmico-metrico di Pagliarani. Sembrerebbe che il vecchio Tommaseo abbia parlato anche per lui, formidabile lettore dei suoi versi, sotto la spinta perentoria di una vocalità dura, straziata, violenta, piena di rancore e di accusa pur nell’onda di una tenerezza profonda.

     Si sa che il metro di Pagliarani tende alla dilatazione: non a caso alcuni dei suoi libri sono obbligatoriamente stampati in orizzontale, in quantoché la pagina in verticale non potrebbe contenere l’ipermetrìa del verso. Questo, appunto perché la sua cifra di base non è quella melica della lirica ma quella drammatico-narrativa del poema. Ecco perché con lui abbiamo un poeta davvero unico nel nostro secondo Novecento, un poeta per il quale il verso non è qualcosa che in se stesso risolve tutto formalisticamente (secondo una consolidata tradizione autocelebrativa, anche quando camuffata e contraddetta in superficie), ma parla di tutto, è un canale aperto che lascia al lettore, evidentemente, una larga facoltà di intervento a tutti i livelli, da quello lessicale-stilistico a quello socio-politico a quello, infine, autobiografico (e autobiologico) stravolto.

     C’è nell’Autodizionario degli scrittori italiani, uscito nel 1990 presso Leonardo a cura di Felice Piemontese, un’autopresentazione di Pagliarani, molto bella e spiazzante anche sul piano della scrittura. Comincia così: “Romagnolo di nascita, ha cominciato a farci caso solo dopo i quarant’anni”. Direi che la cosa è molto curiosa e molto illuminante, perché ci offre un’ulteriore spia di come Pagliarani non tenga affatto all’autoesaltazione, non si lasci sedurre dal suo privato, non si guardi alle spalle con inclinazioni nostalgiche, banalmente memoriali; ma piuttosto, al contrario, usi la sua biografia come un elemento fra i tanti, un fatto enorme ma al tempo stesso accidentale, con estrema durezza, perfino con sarcasmo. Nello stesso testo, si legge ancora: “Quando andò a Milano, sui diciott’anni, scrisse o disse con linguaggio più o meno rilkiano che andava a cercare ‘le parole d’oro’. Le trovò di ferro, e poi si accorse che erano proprio quelle, di ferro o acciaio, che andava cercando”. E però la sua prima raccolta, Cronache e altre poesie – uscita da Schwarz nel 1954 – risultava in ogni caso gravata da troppa ineluttabile carità di sé e conseguente bagaglio, come lui stesso scrisse nel risvolto di quella raccolta, poco prima di intraprendere una vicenda di poesia scritta in una lingua “senza carità di se stessa”, come ebbe poi a definirla. Andò quindi a cercarsi un genere che imponesse strutturalmente barriere espressive all’io di chi scrive, che insomma privilegiasse ciò che, magari con grande approssimazione, chiamiamo oggettività: il poemetto, o racconto in versi, come lo qualifico Vittorini quando pubblicò La ragazza Carla nel “Menabò 2”, Einaudi 1960.

     Una testimonianza assolutamente preziosa: la prova di come, ancora una volta, l’altezza e lo spessore di una poesia non possano andare disgiunte da una crudele consapevolezza, nella conquista, davvero senza carità di se stessi, della propria sigla espressiva: cioè, con la misurazione totalmente laica della propria vita.

     La sigla espressiva di Pagliarani, allora, non potrà che lavorare sul filo di un’epica del quotidiano (magari rovesciato, o preso alle spalle), di una mitologia dell’effimero stampato sulla lastra impietosa della storia degli uomini, della terra che abitano, dei gesti che compiono, delle parole – perlopiù stupide, meschine, menzognere, ma a tratti abbaglianti – che pronunciano. Ed è bene, a questo punto, per dare fino in fondo a Cesare quel ch’è di Cesare, non dimenticare che Elio Pagliarani, anche tra i Novissimi, è di quelli che hanno tenuto fede, senza mai cedere, alla sua fisionomia di poeta anti-elegiaco, di poeta antilirico, di grande poeta, insomma, definitivamente allegorico.

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