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100 PASOLINI

L’Ombra delle parole – Rivista letteraria

ALDO MASTROPASQUA:  IL CONTRASTO PASOLINI – SANGUINETI

da leretidedalus.it

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p.p. pasolini e orson welles in La ricotta 1962

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ninetto davoli in Canterbury di p.p. Pasolini

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p.p. pasolini e orson welles in La ricotta 1962

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pasolini e orson welles sul set de La ricotta

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orson welles legge Mamma Roma di Pasolini

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Accattone film di p.p. pasolini

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pasolini con orson welles sul set di La ricotta

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pasolini giovane con il padre a Roma

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edoardo sanguineti

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testo di e. sanguineti

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umberto eco edoardo sanguineti e furio colombo

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pasolini bambino con la madre

Mezzo secolo fa, 1963, nasceva il gruppo 63, al centro oggi di giuste celebrazioni. Ma il 1963 è anche l’anno in cui Pier Paolo Pasolini firmava la sua terza regia cinematografica dopo Accattone (1961)e Mamma Roma (1962). Si trattava – come è noto – della Ricotta, terzo episodio del film Ro.Go.Pa.G. che prendeva il titolo dalle iniziali dei quattro registi coinvolti: Rossellini, Godard, Pasolini e Gregoretti.  Non starò qui a ricordare le caratteristiche di questo film, nel quale i quattro registi si confrontavano con il tema della perdita d’identità nell’Italia della modernizzazione, del boom e della incipiente società  del consumo.  Pasolini toccava il tema della perdita del sacro, inventando, con il sarcastico stratagemma del cinema nel cinema, le figure contrapposte di Stracci, sottoproletario eternamente affamato, che nel film sulla passione di Cristo deve interpretare la parte del buon ladrone, e del regista, affidata al mitico Orson Welles, doppiato dalla voce di Giorgio Bassani. Non sto qui a ricordare gli elementi che rendono memorabile questo episodio del film collettivo, dall’uso insieme del colore e del bianco e nero, alle innumerevoli citazioni figurative (le deposizioni di Pontormo e di Rosso Fiorentino), letterarie e filosofiche (da Jacopone da Todi al Capitale di Marx, fino alle autocitazioni) e anche musicali (da uno scatenato twist, alla Traviata, fino a Bach, Scarlatti e Gluck) per non parlare di quelle cinematografiche.  Mi voglio riferire invece all’intervista che sul set, appollaiato sulla sua sedia, il regista rilascia controvoglia a un impacciato e intimidito giornalista di Teglie-sera. Eccone il testo:

Tegliesera: – Permette una parola? Scusi tanto, forse disturbo? Sono Pedoti del Tegliesera.

Regista: – Dica, dica.

Tegliesera: – Permette? Vorrei da lei una piccola intervista.

Regista: – Ma non più di quattro domande.

Tegliesera FC: – Aaaah! …Grazie.

Tegliesera: – La prima domanda sarebbe: che cosa vuole esprimere con questa sua nuova opera?

Regista: – Il mio intimo, profondo, arcaico cattolicesimo.

Tegliesera FC: – … arcaico cattolicesimo.

Tegliesera: – E…cosa ne pensa della società italiana?

Regista: – Il popolo più analfabeta, la borghesia più ignorante d’Europa.

 

Terminata l’intervista con altre due domande, una sulla morte e una su Federico Fellini, il giornalista dopo aver ringraziato sta andando via, quando il regista lo richiama e inizia a leggere una poesia: «Io sono una forza del passato…», al termine della quale chiede al malcapitato che cosa ha capito. Al balbettamento del giornalista , il regista, imperiosamente:

Scriva, scriva quello che le dico: lei non ha capito niente perché è un uomo medio. È così?

Tegliesera: – Beh, sì…

Regista: – Ma lei non sa cos’è un uomo medio? È un mostro. Un pericoloso delinquente. Conformista! Colonialista! Razzista! Schiavista! Qualunquista!

Tegliesera: – Ah ah ah ah!

Regista: – È malato di cuore, lei?

Tegliesera: – No, no facendo le corna!

Regista: – Peccato, perché se mi crepava qui davanti, sarebbe stato un buon elemento per il lancio del film. Tanto lei non esiste. Il capitale non considera esistente la manodopera, se non quando serve la produzione. E il produttore del mio film è anche il padrone del suo giornale!… Addio!

Qualche piccola considerazione in margine: Orson Welles, nella Ricotta, legge i versi dal libro di Pasolini  Mamma Roma (Rizzoli, 1962). I versi sono tratti da Poesie mondane, poi nella sezione “La realtà” di Poesia in forma di rosa che sarà pubblicato da Garzanti nel 1964 e corrispondono a un poemetto che Pasolini aveva scritto nel 1962 nelle pause del suo secondo film Mamma Roma. Ma anche la risposta alla seconda domanda del giornalista sulla società italiana («Il popolo più analfabeta, la borghesia più ignorante d’Europa») a guardar bene è un’autocitazione dalle Poesie mondane. E inoltre “Tegliesera” rinvia in maniera scoperta a «Telesera» quodidiano “indipendente” diretto da Ugo Zatterin e fondato nel 1960 dall’editore di destra Rusconi su impulso dell’allora Presidente del Consiglio, il tristemente noto Tambroni, e finanziato dal famigerato Umberto Ortolani, membro della P2. Il giudizio lapidario di Orson Welles-Pasolini suona quanto mai attuale dopo la recentissima pubblicazione del rapporto Ocse-Isfol, secondo il quale il popolo italiano (e questo riguardo alla fascia di popolazione tra i 15 e i 65 anni) si trova all’ultimo posto nella classifica di 24 paesi europei per capacità di lettura e comprensione di un testo e al penultimo per capacità di confrontarsi con numeri, tabelle e grafici.

Certo, al declino culturale del nostro paese, in questo ultimo mezzo secolo, ha contribuito l’ultimo ventennio che comunemente si indica come berlusconiano, la scarsa attenzione che è stata data non diciamo solo alla cultura, ma soprattutto alla scuola, all’università e alle istituzioni culturali: anche in questo settore abbiamo record negativi a livello europeo per numero di diplomati, di laureati per non parlare degli investimenti nei settori più avanzati della ricerca.  Ma vorrei spostare l’attenzione anche su un fenomeno meno appariscente, che investe anche le responsabilità della cultura di opposizione, legata alla sinistra italiana. Non a caso sono partito dal ’63, rievocando insieme Pasolini e la neoavanguardia italiana. Oggi ‒ soprattutto tra le giovani generazioni orientate politicamente a sinistra ‒ lo scrittore-regista friulano rappresenta un’icona circondata da un alone mitico. La neoavanguardia e in particolare Edoardo Sanguineti – la sua mente più attrezzata sul piano della consapevolezza teorico-critica – hanno sempre duramente contrastato Pasolini, il suo mito enormemente cresciuto dopo la sua morte tragica, ma anche l’epigonismo culturale che ne è seguito. Le ragioni di questo scontro, che certo è leggibile in primo luogo attraverso un’ottica interna a contrapposte poetiche letterarie e artistiche (semplificando molto, una spinta alla modernizzazione dei linguaggi a vocazione internazionale ed europeista contro un punto di vista tutto italocentrico, volto a salvaguardare valori in procinto di essere travolti dai processi di trasformazione in atto [«Io sono una forza del passato. / Solo nella tradizione è il mio amore. / Vengo dai ruderi, dalle Chiese, / dalle pale d’altare, dai borghi / dimenticati…»]), in realtà è di ben più vasta portata.

In un articolo pubblicato a soli due giorni dalla sua morte su «Paese-sera», Sanguineti legava Pasolini alla cultura dell’Italia degli anni Cinquanta: «Pasolini ha spontaneamente e calcolatamente rifiutato ogni possibile svolgimento ulteriore, chiudendosi in una negazione, disperata e accusatoria, di tutto ciò che è accaduto dopo. Ogni sua parola, come ogni sua immagine, muoveva da un tempo concluso, assunto miticamente, in elegia e in furore: era il paradosso di un uomo che aveva attraversato un inferno, ricavandone una serie di simboli vistosamente declamabili, per ancorarsi a quelli, religiosamente, e ribaltarli, nevroticamente, in un paradiso di Vita». Tragica confusione, dunque, quella di Pasolini secondo Sanguineti «tra arte e vita, tra letteratura e esistenza». La contrapposizione frontale tra Pasolini e Sanguineti (e più in generale tra Pasolini e il Gruppo 63), che ha segnato per quasi mezzo secolo la cultura della sinistra italiana, investe anche un opposto modo di guardare la nostra storia recente e i nostri problemi attuali. In un intervento sulla rivista «Micromega» del 1995, Sanguineti scriverà che «guardato con occhi marxisti, Pasolini mi appariva come un rappresentante tipico dell’anticapitalismo reazionario e romantico. Il suo opporsi alla modernità e allo sviluppo industriale faceva parte di quella poetica nostalgica e autobiografica che va dai canti friulani fino ai romanzi sulle borgate romane preborghesi e sugli ambienti dei diversi, per non parlare della fuga, sempre più pericolosa, verso l’esotismo, verso il mondo arabo-orientale […] Pasolini non capì che l’Italia si dovesse fare anche attraverso uno sviluppo tecnologico adeguato alle esigenze della modernità: per lui era necessario che la storia si fermasse, auspicava semplicemente un retour en arrière». E in un’intervista su Pasolini per il «Corriere della Sera» nel 2000: «Al progetto di un mondo post borghese, Pasolini contrappone un mondo pre borghese. In lui ci sono già le premesse d’una certa critica alla globalizzazione». Quanto alla sua mitizzazione: «Ogni generazione finisce con l’avere il suo Werther. Adesso tocca a Pasolini. Il mito, che si è creato intorno a lui, risente fortemente anche del ribellismo presente nella sua opera, affine o identico al radicalismo all’italiana».

 

Assai legato a Pasolini, considerato «maestro ed amico» che lo aveva aiutato ad affermarsi come uno dei più notevoli narratori italiani nei primi anni Sessanta, Paolo Volponi si era spostato costantemente verso forme narrative sempre più sperimentali e complesse. Eppure, nonostante la sua prossimità  all’area della neoavanguardia e la sua militanza politica nella sinistra italiana, lo scrittore di Urbino fu sempre visto con sospetto dai membri del gruppo, con l’eccezione di Angelo Guglielmi. Ricordo di aver chiesto una volta a Sanguineti cosa pensasse di Volponi e la risposta fu lapidaria: un inguaribile olivettiano. Eppure, nel suo romanzo di svolta del 1974, Corporale, schiacciato nelle vendite e nella promozione editoriale dal contemporaneo La storia di Elsa Morante, la scrittrice così legata a Moravia e a Pasolini, il protagonista Gerolamo Aspri «comunista fuori del partito, come una bottiglia o un barattolo» con la sua denuncia della «stupidità con la quale viene condotta la maggioranza delle industrie italiane» anticipa con impressionante capacità di preveggenza il tema che sarà poi sviluppato nelle Mosche del capitale (1989), vale a dire lo svuotamento dell’industria italiana da parte del capitale finanziario. E questa analisi colpisce tanto il riformismo all’italiana dell’industria assistita che le tentazioni regressive di un marxismo alla Pasolini che vorrebbe «arrestare la produzione» perché «la produzione produrrà il disastro». Che stesse cambiando tutto con la incipiente rivoluzione dell’informatica, l’olivettiano Volponi lo aveva già capito dai primi anni Settanta: «ormai si sa tutto: nascita dell’uomo, storia, avvenire, destino: tutto in termini esatti, già programmato o programmabile. Un paio di calcolatori potrebbero risponderci quando scoppierà la prima bomba H, e giù giù le altre. Solo la letteratura continua a non saperlo, a far finta che siano diversi gli elementi: la letteratura e il cinema che la imita, il cosiddetto cinema di poesia».

Volponi muore nell’agosto del 1994, anno fatidico che inaugura la nascita della cosiddetta “seconda repubblica” e l’ultimo suo libro pubblicato in vita è una raccolta di articoli usciti su varie testate tra il 1977 e il 1983 raccolti da Emanuele Zinato, Scritti dal margine (Piero Manni), volume che andrebbe attentamente riletto oggi che ancora in piena crisi economica e politica si parla tanto, per il nostro paese, di deindustrializzazione, di decrescita felice, di possibile default, di fallimento della politica e partiti ormai senza identità  si interrogano su come agganciare un sempre più fantomatico sviluppo, se c’è un po’ di luce in fondo al tunnel, su come uscire finalmente dalla crisi. Si potrà chiedere: ma cosa c’entra tutto questo con gli italiani e la cultura?  Io penso che c’entri, perché oggi l’abbassamento culturale registrato dall’inchiesta Ocse ha investito anche la cultura di gran parte della sinistra italiana, come dimostrano ad esempio le pagine culturali dei giornali progressisti, prone alle richieste di un mercato dominato sempre più dai grandi gruppi editoriali o i programmi televisivi delle reti pubbliche costantemente all’inseguimento dell’audience con format sempre più inguardabili, per non parlare del cinema italiano, caduto a livelli inimmaginabili, con rarissime eccezioni. C’è un adeguamento verso il basso che sembra ormai inarrestabile. E basta navigare nella rete, immergendosi nella Babele di un mezzo potenzialmente straordinario, dove si può trovare tutto e il suo contrario, per rendersi conto che la confusione sotto il cielo è grande. «La situazione è eccellente» diceva qualcuno.

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