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Storia, Cultura e Società

Ma quando sorge il sol dell’avvenire?

Riflessioni sull’attualità del socialismo

UNA PROSPETTIVA ECOSOCIALISTA

PER LA SINISTRA ITALIANA ED EUROPEA

19 maggio 2022, CRS Toscana

di Sergio Gentili

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Tema teorico-politico concreto

Nel ragionare della prospettiva ecosocialista occorre avere presenti alcune questioni di fondo:

una visione ideale e culturale legata ai valori del socialismo e dell’ecologismo;

la consapevolezza dell’interdipendenza delle crisi globali (ecologica, sociale, economica e del governo multipolare del mondo;

una nuova concezione della politica;

l’individuazione delle forze disponibili al cambiamento.

L’ecosocialismo non è un modello astratto di società, separato dai concreti problemi dell’epoca attuale. Viceversa, si tratta di scorgere e costruire il nuovo, dentro le concrete contraddizioni dell’oggi. E il nuovo è da fondare sulla saldatura tra il valore della tutela della natura con i valori del socialismo quali l’uguaglianza, la dignità della persona, la solidarietà, la democrazia, la libertà e la pace.

Quindi, si devono fare i conti con le contraddizioni globali attuali che segnano l’attuale crisi d’epoca:

crisi ambientale e crisi sociale,

povertà mondiale, migrazioni e disuguaglianze (di genere, razziali, sociali);

quadro di crisi del mondo che è data dal rilancio di una volontà di supremazia mondiale economica e militare degli USA, dalla crescita di nuove potenze mondiali e dalla caduta di una visione del mondo di coesistenza pacifica che alimenta neonazionalismi e fa considerare gli altri popoli e le altre nazioni come concorrenti/nemici da combattere.

Ora, in assenza di una visione e volontà comune di solidarietà e di coesistenza, tendono a prevalere logiche di guerra (la guerra Russia-Ucraina, Occidente contro la Russia, gli USA contro la Cina, ecc.).

La crisi d’epoca è segnata, in ultima analisi, da due contraddizioni globali quella ambientale e quella socio-economica accentuatesi con la crisi del neoliberismo. Non è più possibile tenere separate nell’analisi queste due crisi: esse vanno lette insieme tenendo conto delle loro specificità.

 

Crisi ecologica

La crisi ecologica ci dice che il presente e il futuro della specie umana,

sono minacciati dal continuo e crescente degrado della biosfera,

dovuta a modelli sociali ed economici consumistici, dissipativi e inquinanti.

Questi hanno determinato e determinano una insostenibile “impronta ecologica” della popolazione mondiale (circa 8 mld) e sono i paesi più ricchi, in questi la parte più ricca, ad avere modelli economico-sociali di forte impatto ambientale. 

Da tempo, l’umanità e il pianeta sono colpiti dai cambiamenti climatici e già nel 2015 il pianeta era entrato in una

Conosciamo assai bene i fenomeni che segnano il degrado dell’attuale biosfera, vado per titoli:

riscaldamento del pianeta; scioglimento dei ghiacciai e innalzamento del livello dei mari; incendi devastanti; uragani e tifoni; inquinamento dell’aria, delle acque e del suolo; riduzione della biodiversità e delle foreste pluviali; desertificazione; consumo del suolo.

Sono tutte crisi ecologiche causate dall’uomo.

Il quale ha modificato il rapporto tra la specie umana e la natura attraverso l’industrializzazione e le rivoluzioni scientifiche.

 

Affermare una coscienza ecologista

È tempo di prendere coscienza che siamo dentro a cambiamenti epocali.

Ciò comporta che il genere umano deve pensare e agire basandosi su una inedita responsabilità ecologica basata su alcuni punti essenziali di consapevolezza ecologista:

dotarsi di un nuovo antropocentrismo fondato sui principi della coevoluzione, dell’interdipendenza delle specie e della cura umana della natura;

prendere coscienza che esistono limiti fisici e biologici del pianeta i quali vanno rispettati;

 comprendere che l’aumento della temperatura è un fenomeno/pericolo in atto e crescente per cui in pochi anni vanno eliminate tutte le cause;

affermare il principio del limite, cioè non tutto quello che è possibile fare è giusto farlo (es. l’uso di sostanze chimiche nocive, un particolare uso della genetica, fino alla la guerra atomica, ecc.) e ciò è tanto più necessario in quanto la rivoluzione tecnico-scientifica ha dotato il genere umano di una enorme potenza in grado di modificare la stessa natura;

infine, rendersi conto che non sarà il libero mercato a risolvere la crisi ecologica e quella sociale. Anche papa Francesco, nell’enciclica “Laudato Sii” ha scritto:

“L’ambiente è uno di quei beni che i meccanismi del mercato non sono in grado di difendere o di promuovere adeguatamente” [quindi occorre] “cambiare il modello di sviluppo globale […] Su questo tema le vie di mezzo sono solo un piccolo ritardo nel disastro.”

 

La nuova questione sociale

Alla contraddizione ecologica va intrecciata la “nuova questione sociale”.

Essa è maturata nel trentennio del capitalismo liberista e consiste in (mi scuso per lo schematismo):

una forte integrazione globale; una enorme capacità produttiva e finanziaria; un decentramento produttivo che poggia sulle delocalizzazioni e su nuovi rapporti colonialisti per lo sfruttamento delle risorse naturali vecchie e nuove che alimentano lo squilibrio Nord-Sud.

Nei paesi occidentali, il sistema capitalistico è caratterizzato, da una parte, dalla gigantesca potenza delle forze finanziarie, dall’altra parte, dalla svalutazione del lavoro con la precarizzazione, i bassi salari, la riduzione dei diritti, i nuovi tipi di sfruttamento e tutto ciò ha prodotto l’impoverimento del lavoro dipendente e dei ceti medi.

Il liberismo si è appropriato dell’innovazione e della robottizzazione finalizzandole al profitto delle vecchie e delle nuove concentrazioni monopolistiche globali, che vanno dalle fonti energetiche fossili ai big-farma, dalla chimica alle piattaforme informatiche, dall’informazione all’industria militare, dal monopolio dei semi agricoli alla finanza.

Sempre in occidente, il neo-liberismo ha portato con sé l’affermazione di sistemi politici a democrazia regrediente. Da una parte, si assiste a minacciosi processi di riduzione/restrizione dei diritti delle persone, del ruolo dei Parlamenti e della partecipazione, dall’altra parte, avanzano sistemi politici autoritari, personalistici, nazionalistici e guerrafondai.

Ma, con la grande crisi del 2008, il capitalismo liberista è entrato in crisi ed è apparso in esaurimento e non più riproponibile.

Quella crisi ha aperto riflessioni e discussioni nell’intellettualità occidentale sullo stesso futuro del capitalismo.

 

La transizione

Questa fase la definirei di transizione in quanto è in corso una lotta tra le forze dell’innovazione e quelle della conservazione per il superamento della globalizzazione liberista.

E ancora non è certo chi prevarrà.

Anche perché le forze di sinistra e progressiste sono rimaste subalterne e non hanno ancora chiaro verso quale approdo dirigersi.

Alla crisi della globalizzazione liberista una prima risposta è venuta dalle forze neo-nazionaliste di destra: Trump in America e movimenti neo-nazionalisti e razzisti in Europa.

A quella crisi strutturale si sono sommate poi le conseguenze della pandemia e ora quelle della inaccettabile aggressione Russa all’Ucraina.

Tutto ciò ha messo e mette in discussione gli asseti geopolitici e i rapporti nelle stesse aree capitalistiche. E sono in crisi anche gli equilibri sociali e politici all’interno di ogni nazione.

La prospettiva è davvero inquietante in quanto si stanno aggravando le disuguaglianze, stanno peggiorando le condizioni dei paesi poveri, quelle dell’ambiente e della sicurezza internazionale. L’Occidente è investito da una nuova pesante crisi sociale ed economica.

In questo quadro, non possono non venire alla mente le parole di Enrico Berlinguer del lontano 1983: «la tragica realtà … dimostra che il meccanismo capitalistico non è più proponibile come modello universale».

 

Risposte sbagliate alla crisi d’epoca

In sintesi si può dire che negli ultimi 30 anni si sono avute società che hanno determinato meno diritti e più degrado ecologico.

Società che sono entrate in una fase di trasformazione.

Le soluzioni avanzate dai liberisti e dai neo-nazionalisti si basano sul principio che occorra lasciare nelle mani del libero mercato delle grandi multinazionali, cioè al 1% più ricco del pianeta, la soluzione della crisi d’epoca e la guida della transizione.

In più, i neo-nazionalisti hanno introdotto gravissimi elementi di egoismo razzistico del tipo: prima noi e solo poi, forse, gli altri.

Mentre i democratici americani, con Biden, appena eletto, hanno riproposto gli USA come guida economica e militare del mondo, hanno lanciato una sfida globale alla Cina e continuano a voler estendere la Nato in Europa e nel mondo. Biden sta finanziando in modo gigantesco la propria industria militare, sperando, anche così, di superare la crisi economica e di egemonia americana, nonostante la spesa militare americana rappresenti già circa il 40% delle spese militari mondiali e la spesa militare aumenta ogni settimana per le armi all’Ucraina.

L’Unione Europea, pur non avendo gli stessi interessi degli USA li seguono, ma la non identità di interessi porterà, probabilmente, ad una divergenza non secondaria.

Drammaticamente la Russia è chiusa nel suo nazionalismo e mette in atto inaccettabili logiche di guerra. Tra i probabili scenari, si prospetta un mondo diviso tra blocco occidentale e blocco cino-sovietico.

In questi decenni, le crisi hanno creato malessere e proteste in larghissime fasce popolari che hanno oscillato a destra. Anche perché la sinistra d’ispirazione socialista è rimasta subalterna all’egemonia dei liberal-liberisti, si è sbandata, divisa e frammentata.

Pur in presenza di elementi di ripresa, alla sinistra manca una ipotesi di società verso cui andare. L’opzione dell’ecosocialismo ancora non appare loro un approdo necessario e anche possibile.

Siamo, quindi, in una fase di transizione.

Ma per le forze di sinistra cosa vuol dire stare nella transizione?

Dovrebbe significare lavorare e lottare per superare le disuguaglianze, le spinte autoritarie, il degrado della natura, lo sfruttamento del lavoro e lottare contro le forze guerrafondaie, ovunque presenti.

E  per far questo, la sinistra dovrebbe combattere coerentemente contro le logiche del libero mercato.

 

Centralità dell’intervento pubblico

Ma se non è il libero mercato a dare la soluzione ai bisogni dell’umanità, allora chi può farlo?

In Occidente lo possono fare solo le istituzioni democratiche in quanto rappresentanti degli interessi collettivi.

E qui, ci caliamo nel vivo dello scontro politico che è stato ed è ferocissimo sulla funzione e il ruolo dello Stato.

Nel secondo dopoguerra, con la sconfitta del nazifascismo e al prezzo di durissime lotte operaie e popolari, si è affermata, in Europa e in Italia, una nuova idea di Stato, lo Stato Sociale, fondato sulla partecipazione democratica e sul riconoscimento dei diritti sociali e civili dei lavoratori e delle persone. Ciò ha condizionato il potere dei grandi gruppi finanziari e industriali.

Poi, con la globalizzazione liberista si è negato e contrastato il ruolo sociale dello Stato e si sono imposte le privatizzazioni che hanno sottratto ricchezza, lavoro e beni pubblici ai cittadini. E, ovviamente, hanno degradato l’ambiente.

Ma con la crisi finanziaria del 2008, lo Stato è tornato nuovamente ad essere indispensabile per salvare il sistema finanziario globale.

Poi, con la pandemia, i cambiamenti climatici e ora la guerra, lo Stato e le istituzioni europee sono appaiono ancor più fondamentali per sostenere l’economia, per alleviare le più gravi sofferenze sociali ed ecologiche e per le sanzioni contro la Russia.

Tutto ciò ricolloca le istituzioni pubbliche al centro della politica.

Lo Stato e le istituzioni europee appaiono indispensabili.

Ma di quali istituzioni pubbliche c’è però bisogno per affrontare la crisi d’epoca?

E’ utile l’attuale Stato “rattoppatore”, che salva i grandi gruppi economico-finanziari, con i soldi di tutti, per poi riconsegnare loro il potere e gli affari?

Sono utili le attuali istituzioni europee bloccate dalle divisioni e troppo subalterne alla finanza e alle politiche USA?

Oppure c’è bisogno di istituzioni europee che “accompagnino e orientino” gli Stati e il

singolo Stato essere innovato per renderlo responsabile, democratico e di pace?

Cioè, essere in grado di mobilitare le grandi risorse collettive, finanziarie e umane, di programmare e di indirizzare l’economia per soddisfare i bisogni sociali, per tutelare gli equilibri ecologici e per garantire l’uso sociale della tecnica e della scienza?

La risposta è che è necessario, ovviamente, uno Stato responsabile. E se necessario, possa anche gestire direttamente segmenti economici strategici come avrebbe dovuto fare l’Italia per l’Ilva, per l’Alitalia, per pezzi del mondo finanziario e per la gestione dei monopoli naturali come le risorse idriche ed energetiche.

Pertanto anche l’U.E. deve essere profondamente riformata, (si è aperta una riflessione in merito) perché essa non è affatto adeguata a sostenere la programmazione socio-ecologica in quanto essa è stata costruita su principi, trattati e politiche neo-liberiste e poggia su una struttura istituzionale segmentata e non partecipativa, per di più priva di una banca centrale propria.

Per esempio, lo stesso PNRR italiano è costruito su orientamenti contraddittori e non è baricentrato sulla qualità sociale ed ecologica dello sviluppo. Gli manca una strategia chiara e condivisa di transizione ecologica ed energetica. Tanto che, il ministro alla transizione ecologica Cingolani ha riproposto il nucleare e Draghi ha dichiarato che gli attuali investimenti per le rinnovabili sono insufficienti, poi, rimette in discussione le politiche per il risparmio energetico e ignora il recupero delle materie dai rifiuti, nonostante che l’inflazione e la guerra sono lì a dire che il costo delle materie prime cresce come cresce la loro scarsità.

 

Lo sviluppo sostenibile

Viceversa, quello che serve è individuare precise riforme socio-ecologiste (ci sono varie terminologie per indicarle: sviluppo sostenibile, green economy, economia circolare) e superare il dibattito pubblico che è assolutamente confuso e inadeguato:

il Parlamento ne discute male, non ci sono scelte chiare e concrete, solo elenchi e dati quantitativi di un generico dover fare.

Quello che drammaticamente manca, però, è la consapevolezza della centralità del binomio ambiente e lavoro.

È assente la consapevolezza cioè che la tutela dell’ambiente è un potente volano di crescita dell’occupazione e l’occupazione cresce con le riforme socio-ecologiste e che la spesa ambientale non è un costo ma un investimento.

Questa formula che ho pronunciato indica precise e concrete riforme che tutelano l’ambiente e creano lavoro., Il campo è vasto. Indico alcuni ambiti:

intervento sui grandi sistemi infrastrutturali come la difesa del suolo, le aree urbane per città sostenibili e il vastissimo ambito dell’ ambientalizzazione di processi e prodotti industriali.[1]

Le riforme socio-ecologiste richiedono la ricerca scientifica e il trasferimento della tecnologia alle industrie. Le tecnologie innovative sono già disponibili e hanno la forza dirompente che ebbe la macchina a vapore. Qui c’è bisogno di un potenziamento e un coordinamento dei centri di ricerca e di strutture di trasferimento tecnologico.

Va superato il sensazionalismo scientifico: che uso della scienza è quello che vede miliardari vagabondare per divertimento nello spazio, a costi altissimi, mentre ci sono miliardi di persone che sopravvivono nella fame?

 

Il bivio

Sulla base di queste considerazioni, a me pare, che l’U.E., e più in generale l’Occidente, sono giunti ad un bivio. Il bivio, indica due strade:

la prima, di “liberismo tecnologico”, con Stati passivi e subordinati ai grandi monopoli nazionali e internazionali, Stati deboli, con una democrazia regrediente, con una partecipazione minima e con istituzioni politiche subalterne;

la seconda, è quella dello sviluppo sostenibile con Stati democratici responsabili, che programmano, che sono guidati dai Parlamenti e da una pluralità di forze, con una democrazia a forte partecipazione popolare (ciò che Berlinguer definirebbe elementi di socialismo).

Al bivio c’è anche la sinistra che è chiamata a scegliere e a schierarsi per la democrazia nella battaglia di “dualismo di potere” tra le grandi multinazionali e i poteri democratici dei popoli: sindacati, partiti, associazioni, Stati e istituzioni sovranazionali.

 

 Le forze interessate al cambiamento ecosocialista

 Quali forze sociali, culturali e politiche potrebbero esse interessate ad una prospettiva ecosocialista? A questo punto domanda è più che opportuna e rispondere a questa domanda è indispensabile, perché sappiamo che la sola necessità di cambiare non determina meccanicamente il cambiamento.

Per realizzarlo è necessaria la mobilitazione cosciente e permanente delle grandi forze del lavoro e dell’intellettualità progressista, unite alle immense energie popolari, delle donne, dei giovani, dell’impresa responsabile e delle autorità religiose. E serve, anche, una visione e una proiezione internazionale del movimento ecosocialista.

Le forze interessate al cambiamento ci sono ma vanno individuate, unite e rese coscienti e protagoniste. Vediamole in breve e schematicamente:

le nuove generazioni che con il fenomeno Greta e i nascenti movimenti per la pace e contro la guerra e il riarmo, ci segnalano che le attuali società capitalistiche e quelle autoritarie, non rispondono ai bisogni ideali e materiali dei giovani: di libertà, di uguaglianza, di pace, di tutela della natura, di solidarietà e di lavoro. Qui c’è una evidente divaricazione, una frattura che tenderà a crescere;

interessati al cambiamento sono le vaste forze del lavoro e del ceto medio per realizzare la crescita dell’occupazione, la difesa dei diritti del lavoro e dell’ambiente, sono forze interessate alla loro affermazione come classi dirigenti, a rimuovere vecchie e nuove forme di sfruttamento, di precarizzazione e vogliono avere spazi di partecipazione nelle scelte delle aziende pubbliche e private;

c’è il mondo femminile impegnato nelle lotte per superare le culture e le pratiche maschiliste e per realizzare il loro riscatto sociale, civile, politico e di genere;

una considerazione nuova fa fatta sul mondo del pubblico impiego:

qui ci sono milioni di persone che lavorano quotidianamente per il benessere collettivo e non per il profitto privato, sono nella scuola, nella sanità, nelle aziende pubbliche, nell’università, nella ricerca, nelle forze di sicurezza, nella pubblica amministrazione ecc., questo tipo di lavoro pubblico è una caratteristica propria dello Stato di diritto e dello Stato sociale che hanno segnato una novità storica;

c’è poi il mondo dell’agricoltura che combatte contro la siccità ed è impegnato nella salvaguardia della salute, dei cibi e dell’ambiente;

poi, le imprese private legate alla spesa pubblica di qualità sociale ed ecologica; il vasto mondo delle cooperative e del volontariato; il mondo dei parchi, del turismo di qualità e della ricerca.

Quindi, un blocco di forze interessate al cambiamento ecosocialista c’è ed è vasto. Sono risorse non valorizzate perché compresse da meccanismi estranianti e non partecipativi.

Queste forze vanno unite e rese protagoniste del miglioramento delle proprie condizioni di vita in una prospettiva di cambiamento.

 

La responsabilità delle sinistre

Pongo una domanda. Come mai gran parte delle sinistre non vedono queste forze come un insieme, non operano per unificarle e non le considerano una leva di cambiamento?

La mia risposta è che a sinistra manca una visione di futuro e una nuova teoria riformatrice, manca cioè l’idea di rivoluzione democratica ed ecosocialista.

E, quindi, faticano a individuare e ad attivare forze sociali e culturali, a indicare riforme, politiche e lotte, a comunicare con linguaggi semplici e incisivi.

Cioè manca alla sinistra una soggettività politica nuova, all’altezza delle grandi sfide e radicata nelle forze del lavoro e popolari.

Pertanto, da una parte, ci sono partiti che hanno una visione di sola gestione del potere, che considerano i cittadini solo come massa elettorale, dall’altra parte, ci sono gruppi frammentati e chiusi dove regna l’ideologismo e la diffidenza reciproca.

Entrambi non sono stati, e non sono, in grado di costruire un movimento di cambiamento unitario e quindi vasto.

Ma per fortuna qualcosa si sta muovendo.

Sul lato della teoria va superata la separazione tra valori ecologisti e valori socialisti. Qui non serve una giustapposizione di idee e di principi, viceversa, serve una nuova sintesi: ideale, teorica e politica sulla base della fusione dei principi socialisti dell’uguaglianza con quelli della tutela della natura.

Una sintesi in grado di fornire una nuova e solida identità alla sinistra.

Due ultime considerazioni.

La prima, è che in assenza di una visione di cambiamento tutto appare frammentato, diviso e contrapposto. Il cambiamento sembra non solo difficile ma impossibile. Queste percezioni condannano all’immobilismo.Il rischio è che, ancora una volta, il disaggio dei cittadini, in presenza di un immobilismo e divisione a sinistra, possa avere sbocchi politici di destra e neo-nazionalisti.

La seconda, è che molti intellettuali si sono accolto, nei fatti, alla tesi della fine della storia, pur contestandola. E quando si domanda, oltre il neoliberismo e il neo-nazionalismo cosa potrà esserci, o meglio cosa vogliamo che ci sia?

Ci si smarrisce, non si indica una nuova idea di società possibile, non si ha fiducia nelle nuove classi dirigenti democratiche e del lavoro.

Emerge solo del pessimismo e una sfiducia al limite del qualunquismo.

Quindi, per tornare al tema “Ma quando sorge il sol dell’avvenire?” si potrebbe rispondere con le parole di una bellissima canzone di Battiato :

“E il mio maestro mi insegnò com'è difficile
Trovare l'alba dentro l'imbrunire”.

 

Certo, è difficile ma non è impossibile.

Anzi, la prospettiva ecosocialista è necessaria per la natura e per le future generazioni, è urgente per il mondo d’oggi ed è anche una grande opportunità storica per la sinistra.

 

 

[1]

Intervento sulle grandi sistemi infrastrutturali essenziali:

la difesa del suolo; il sistema energetico di transizione dai fossili alle rinnovabili e l’efficienza energetica;

i trasporti: centralità dei pendolari, estensione e qualità della rete ferrovia, il cabotaggio e nodi della logistica;

tutela delle acque fiumi, laghi, falde acquifere, il mare: acquedotti, rete idraulica e fognaria, depurazione, riuso delle acque;

il sistema delle aree protette e dei servici ecologici che forniscono;

i rifiuti concepiti come una innovativa industrializzazione sostenibile per il recupero di materie prime.

intervento sulle aree urbane per Città sostenibili:

chiusura al traffico e mobilità sostenibile: tram, metrò, filobus, bus elettrici, pedonabilità e ciclabilità intesa come modalità di trasporto, servizi di carsharing;

risparmio energetico impianti di riscaldamento e rinfrescamento;

il recupero delle materie dai rifiuti che rappresenta un nuovo segmento industriale (economia circolare);

recupero urbano con la manutenzione e il restauro degli edifici per abitazioni e zero consumo del suolo;

la messa in sicurezza di edifici pubblici: scuole, ospedali, impianti sportivi, musei;

la custodia e la valorizzazione dei beni culturali e delle aree archeologiche (a Roma il rilancio del progetto Fori).

ambientalizzazione di segmenti industriali:

bonifiche; il sostegno alla nuova chimica, bio-agricoltura e agro-industria … l’elenco potrebbe continuare a lungo.

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