Anno VIII - Numero 3/2022
ASSUNTA SÀNZARI PANZA
LUX (Nova et vetera)
Prefazione di Gualberto Alvino
Illustrazioni di Maura Ragazzoni;Torino, Robin Edizioni, 2022
di Maurizio Soldini
Di primo acchito, spulciando tra le pagine del libro e cogliendo le prime impressioni, mi ero detto e avevo anche scritto di getto che il libro è avvolgente e coinvolgente. Un libro, dicevo anche, che divampa come luce da un fuoco di passione, che è amore per la vita (mood esistenziale), per le cose (mood fenomenologico) e soprattutto per le persone (mood personalista), in particolare per le persone più care; ma anche amore per la natura, per il mondo e dunque tout court per l’esser-ci e il suo senso (mood ermeneutico). Un libro, aggiungevo, che denota, ma ancor più connota, uno stile, cifra di una voce unica e originale nel panorama della poesia contemporanea e, mi sia concesso, soprattutto nell’attuale dimensione poetica femminile.
A una successiva e approfondita lettura (e quindi all’ulteriore soppesare, maggiormente attento, con ulteriori successivi ritorni a quanto ero andato evidenziando a margine sulle pagine), non potevo che confermare a me stesso, e vedere rafforzate, le mie prime impressioni.
Il libro (dal titolo Lux, che rimanda con l’incisivo esergo giovanneo — «E gli uomini preferirono le tenebre alla luce», scritto in greco — al filo rosso, la luce, in opposizione al buio, che si dipana per l’intero volume) «raccoglie tutta la […] produzione poetica, finora inedita», ovvero non pubblicata in una silloge, della poetessa Assunta Sànzari Panza, come dice nella Postilla l’Autrice stessa, ed è diviso in due parti: Nova et Vetera, che — sottolinea ancora l’Autrice — «allude all’improvviso, radicale cambio di passo verificatosi di recente nella [sua] produzione poetica». La prima parte, Nova, consta di ventisette testi, mentre la seconda, Vetera, suddivisa in quattro sezioni (Filia patri, Mater filiae, Gli effetti dell’aria e Memorie), consta di trentotto componimenti.
La poesia necessita di essere letta e riletta, e poi ancora riletta. Deve essere acquisita e quindi metabolizzata. Ma ciò avviene se c’è stoffa, e se c’è stoffa lo si vede subito. Lo si vede dalla complessità della trama, dallo stile e da quel soffuso stato d’incertezza da parte del lettore, incertezza ‘cognitiva’, potremmo dire, legata all’allusività propria della parola poetica — necessaria e ineludibile — con la quale il poeta sapientemente dice e non dice nello stesso tempo, rinunciando al significato per rimettersi al senso, legando alla parola, a ciascuna parola, quell’alone di mistero che vuole e deve essere semplicemente compreso e non capito. Per essere chiaro, la prima distinzione che opero davanti a un testo in versi è escludere ab initio che quel testo sia poesia, e per farlo mi viene facile distinguere a una prima lettura il banale, dal non banale, sulla base del fatto che un testo si possa capire o comprendere. E se si capisce, detto-fatto, quel testo viene da me abbandonato all’oblio, non dell’insignificanza, ma dell’insensatezza. Preferisco i testi che si lasciano comprendere, che presentino, dunque, una qualche difficoltà interpretativa, una cripticità di fondo, e mi appassionano tanto più se sono polisemici, in modo che a ogni lettura si possa cogliere un senso diverso. Sono consapevole di essere una delle poche mosche bianche nel mondo della poesia, dacché sembrerebbe essere ormai accettato quasi all’unanimità il mainstream (bontà della maggior parte dei critici “più in voga” e dei poeti “affermati”) che si rifà alla banalità minimalista, dove tutto viene detto col pedale più basso possibile, per essere accolto nel novero della Poesia, evitando tutto quanto non sia deleterio alla spiegazione più spiccia naturalistica bieca volgare.
Ebbene, per tornare a noi, già dal titolo, Lux, e dal sottotitolo, Nova et vetera, detti e scritti in latino, e dall’esergo, detto e scritto in greco antico, c’è la volontà da parte della poetessa Sànzari Panza di stare sullo stesso crinale in cui anch’io mi trovo a mio agio; contrariamente al mainstream di cui sopra, che invece parrebbe sottolineare la necessità di non usare un linguaggio letterario, che guardi anche alla tradizione poetica e linguistica. E allora “critici ipocriti” è l’ossimoro che ben si attaglia a chi costringe la poesia nell’alveo del qualunquismo linguistico della quotidianità. La poesia, invece, ha bisogno della lingua inclusiva d’ogni linguaggio, del presente come del passato, della tradizione come della contemporaneità, ma il tutto modulato in una ricerca formale che rimarchi anche nelle sperimentazioni un avvicinamento nel discostamento alla creazione di un linguaggio nuovo, originale, alto e basso insieme. E soprattutto un linguaggio poetico che non disdegni le sonorità del canto, le armonie delle parole e delle figure retoriche, che hanno sempre sostenuto e alimentato la poesia, che oggi invece appare molto spesso smagrita e depressa. Anche tutte queste cose vengono per lo più fatte fuori dai registi del mainstream, che spesso si fanno forti degli uffici stampa delle maggiori case editrici.
La poesia di Assunta Sànzari Panza è dunque la poesia che prediligo, perché architettata e donata al lettore nel modo e nella misura che dovrebbe essere propria dei poeti e della poesia nell’ottica fenomenologica, ermeneutica, esistenziale, personalista e stilistica, sì da poter essere letta e apprezzata come poesia genuina, vera, tanto più se giocata con «la spontaneità del gesto poetico» (così Gualberto Alvino nella lucidissima e penetrante Prefazione), spontaneità propria della nostra poetessa, implicante quella naturale predisposizione al fare poetico che ogni poeta vero e genuino dovrebbe avere. Ecco perché la poesia di Lux avvolge e coinvolge: perché si mostra in tutta la sua originalità creativa ed espressiva, riuscendo abilmente a convincere sia con la forma sia con la sostanza, che conducono simbioticamente al senso, nella vecchia maniera come nel nuovo modo di affrontare il dettato. Dettato che muta nel modo e nei mood, passando da un approccio più lirico intriso di sentimento a una maniera meno lirica, come avvisa ancora Gualberto Alvino, là dove afferma che la poetessa transita «da una fase idillico-elegiaca dominata da un io lirico di sapore greco e a tratti ipertrofico, concentrato quasi esclusivamente sul tema del nòstos, della mancanza e dell’amore […] a un nuovo modo di formare, in cui il sentimento azzera spietatamente — con l’abbandono intimistico — il sentimentalismo e l’io lirico sopravvive solo in terza o sesta persona, se non perfino quale flatus vocis».
Nel libro occorrono diversi motivi per lo più legati al vissuto della poetessa, e tra quelli più appariscenti spicca in primis il tratteggio, sia in chiaro sia tra le righe di diversi componimenti, della figura paterna, amata fino all’inverosimile, soprattutto quando è còlta nella sua assenza (a tale proposito rimando soprattutto alla poesia Senza, uno dei passaggi più intensi della prima parte, Nova; così come rimando alla prima sezione, Filia patri, della seconda parte del libro, Vetera). Il rapporto padre-figlia è talmente potente che «i mille istanti / intrisi del nostro pazzo amore» fanno sì che anche oltre la presenza del padre, in absentia, ci sia un’unione che perdura indefessa, per quanto nel silenzio di un continuo ritorno, perché quella «foglia» che infine «si stacca dal ramo» (e che è simbolo di morte, come è detto mirabilmente in una toccante prosa poetica), solo apparentemente cade nel silenzio del buio abissale della notte, in quanto continua a risplendere nell’interiorità della figlia/poetessa, che non solo rende presente il padre oltre l’assenza con la sua stessa presenza, ma eterna la sua figura attraverso un mirabile gesto po(i)etico. Il dolore per la dipartita dell’amato padre è il dolore filiale, che nella sua abissalità si fa dolore cosmico (rimando alla poesia Weltschmerz). Il dolore della perdita determina in gran parte la chiusura a riccio sulla dimensione angosciante notturna rabbuiante che fa implorare la luce, anche al di là d’ogni speranza. Ma la speranza è l’ultima a morire e dunque il senso è sempre sulla soglia ad accendere come una fiaccola ogni altra luce che soppianti il buio della notte e del dolore. Luce (Lux) nella quale la poetessa spera, luce che non mancherà di venire nell’av-venire, fattosi presente, portando con sé il nuovo modo di fare poesia (Nova), che mette in evidenza il passaggio dal frammento e dall’idillio (Vetera) al fiume in piena del nuovo dettato, in cui esplode la presenza evenemenziale della luce, luce dei propri vissuti (Erlebnis) che implicano una nuova stagione fatta di sguardi su nuove presenze, fuori come dentro di sé, che portano a maturità stilistica e performante e che danno al dettato poetico la speculare dimensione della nuova passione per tutto e per tutti, a cominciare da sé stessa, tornata, come traspare dai suoi versi rinnovati, ad appassionarsi alla vita e ad una parola nuova più fluida, più cogente, nella concretezza di un mondo che pur non avendo perso del tutto il suo dolore intrinseco, sa offrire una dimensione di senso nella quale la melancolia legata a Thanatos lascia il posto alla gioia di Eros. Thanatos Eros Vita Vissuti Passione Piacere Dolore sono il succo di un’avventura esistenziale che si dipana tra il prima e il dopo, e come per catarsi il dopo si sostanzia del superamento dello smarrimento esistenziale, che lascia dietro di sé l’Angst per sbocciare nella prospettiva del senso che germina dall’Amore, l’istante che eterna e racchiude in sé il ritrovato piacere di esser-ci, nonostante persista una certa vena di pessimismo, di malinconia celata, di dolore, di momenti di cedimento o delusione come davanti a un paesaggio invernale nel quale si rispecchia il proprio stato d’animo (Inverno). Non per nulla il dolore con le sue sequele esistenziali è la maggiore cifra contenutistica della nostra poetessa, che tanto deve al pathei mathos (l’insegnamento del dolore) di eschilea memoria.
Mi piace anche sottolineare come riguardo alla tradizione ci sia uno sguardo assiduo da parte della nostra poetessa al classicismo e al romanticismo nella sostanza e soprattutto nella nettezza della forma, sapientemente lavorata di bulino. Così come si avvertono echi della letteratura greca, in particolare delle tragedie (soprattutto, ripeto, quelle di Eschilo).
Altra notazione: il leopardismo di fondo. In più di una poesia emerge l’amore per Leopardi, e in particolare si fa molto apprezzare Ultimo grido, per l’appunto dedicata A Giacomo Leopardi, poesia che si distingue per l’uso magistrale della metatestualità, richiamando e innestando nel componimento parole e versi del Recanatese.
In conclusione, vorrei sottolineare altri due punti essenziali.
Come nota Gualberto Alvino, la parte più recente della produzione di Assunta Sànzari Panza si colloca in una dimensione se non di sperimentazione, di seria ricerca, nella quale si coglie un dettato affabulatorio spesso monologante che richiama in molti punti i cori delle tragedie greche e che quindi fonde tradizione e innovazione.
Altro tratto specifico, in Vetera ma ancor più in Nova, è l’uso abbondante dell’aggettivazione. E anche questa è una controtendenza. Ma l’uso degli aggettivi è giocato con maestria, nella misura in cui rientra nell’economia dello stile, che risulta maggiormente armonico e ‘colorato’, tanto da conferire ai versi una musicalità del tutto particolare.
Assunta Sànzari Panza, insomma, è poetessa riconoscibile per il dettato e per lo stile, quindi possiamo considerarla storicizzata per la sua capacità, nel “vecchio” come nel “nuovo”, di far emergere la propria verace personalità, trasformando liricamente ogni vissuto, ora come allora, anche se la nuova produzione viaggia all’insegna d’una maturità più accentuata quanto a scavo stilistico e contenutistico.