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Pe la Critica

PREFAZIONE A “SALA DA MUSICA. TRENTA LEZIONI

DI POESIA AMOROSA”, DI GUALBERTO ALVINO

Roma, Il ramo e la foglia Edizioni, 2022.

di Luigi Matt
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Chi ha seguito il suo percorso di scrittura, in prosa e in versi, conosce l’irrequieta curiosità del Gualberto Alvino scrittore (palesatosi pienamente quand’era già ben nota l’attività critica e filologica, intensa e dagli esiti importanti). È un’attitudine che lo porta in ogni nuova prova a cercare soluzioni almeno in parte diverse da quelle adottate in precedenza, pur nella fedeltà ad una precisa tendenza, che risponde all’imperativo di non blandire mai il lettore con forme piane e immagini rassicuranti. Il canzoniere amoroso sui generis che il lettore ha adesso tra le mani condivide coi libri precedenti di Alvino l’impostazione di base: la letteratura è impiegata come strumento di conoscenza. Una conoscenza nella fattispecie ottenuta facendo collidere ambiti dell’esperienza che verrebbe da considerare incompatibili: come sempre capita quando uno scrittore è in grado di scardinare con felice spregiudicatezza i limiti del senso comune, l’inaspettata fusione di orizzonti permette di guardare alle cose da un punto di vista diverso.

Sulla soglia, il poeta sembra voler perpetrare un depistaggio: titolo e sottotitolo infatti, non significano ciò che sembrerebbe a prima vista. Sala da musica induce facilmente a pensare alla serena musicalità di una poesia classicamente impostata, vale a dire il contrario di ciò che si trova all’interno del libro. Ma il livello sonoro non è affatto messo in secondo piano; tutt’altro: l’autore muove dalla condivisibile convinzione ‒ spesso espressa nei suoi scritti critici ‒ che in letteratura la forma non è un rivestimento esteriore del contenuto, ma rappresenta di per sé il contenuto. Se ciò vale per ogni genere testuale, tanto più vero sarà per la poesia: il lettore è quindi invitato a prestare ascolto alla trama acustica, fatta anche di dissonanze e quando opportuno di cacofonie, delle trenta lezioni.

Che cosa sono esattamente le lezioni in questione? Il termine richiede di essere interpretato. Andrà scartato subito il significato più ovvio, quello di ‘ammaestramenti’: alla fine della lettura non si hanno maggiori certezze sulla natura dell’amore; al contrario, vengono alimentati i dubbi che ogni persona realmente senziente ha sempre su questo come su altri aspetti fondamentali dell’esperienza umana. Sarà meglio rivolgere lo sguardo all’italiano antico, in cui lezione vale anche, semplicemente, ‘lettura’ (in particolare ad alta voce). Ma certamente si deve vedere anche un richiamo all’accezione filologica del termine, che emerge inequivocabilmente nell’unica occorrenza all’interno dei versi: «non è più tempo di postille / varianti alternative segni diacritici / ricopiature in pulito l’atroce scelta / tra lezioni concorrenti».

Proprio la filologia costituisce inopinatamente il correlativo oggettivo del rapporto amoroso (i cui protagonisti sembrano essere stati compagni di studi) messo in scena per squarci e inquadrature oblique nelle trenta poesie. Si faticherebbe ad immaginare a priori qualcosa di meno erotizzante degli studi filologici, che solo a nominarli evocano fantasmi di severi studiosi provvisti di panciotto e lunga barba d’ordinanza. Ma le dinamiche d’amore sono inesauribili (ciò che permette ancora di affrontarle in modo non ovvio, dopo millenni di testi letterari ad esse dedicati): il lettore di Sala da musica al principio è frastornato nel trovare nei primi versi della poesia d’apertura espressioni come «natura palinsesta del codice», «simmetrie chiasmatiche», «tradizione lessicografica», «tropica popolare»; ma presto rimane colpito dalla naturalezza (raggiunta per via d’artificio, com’è logico che sia) con la quale i due mondi ideali si incastrano. Ragione e sentimento si specchiano una nell’altro, e si arriva persino a mostrare come libido coeundi e libido sciendi siano pulsioni non necessariamente da vivere in alternativa. È ciò che succede in particolare in Dorso fiato vento, che descrive un amplesso tra la voce poetante e, allo stesso tempo, un manoscritto e la donna amata (inequivocabilmente indicata dalle iniziali, che sono quelle della dedicataria dell’intera silloge): «spogliare un codice non è cura dappoco / ci vuole tatto carézzane il dorso / palpa le iniziali per esempio A S P / ma bada a non irritare la pelle / trattieni il respiro fondilo al suo / più fiato che vento / più bacio che fiato / spìane accorto le reazioni / l’umidore è il sintomo primo / significa prendimi e allora / volta le pagine con soffî mirati».

L’ambiguità semantica del verbo spogliare, che filologi e linguisti ben conoscono, invita in effetti a non sottovalutare la passione con la quale ci si può accostare ai testi, un’attività in cui la cartesiana applicazione di metodi rigorosi non esclude affatto (a differenza di quanto in molti scioccamente ritengono) il piacere: Madonna Filologia non è avara nel ricompensare i suoi fedeli con la felicità mentale.

Una vera e propria attrazione sembra alla base del rapporto con la letteratura che emerge nei versi di Sala da musica; non sorprendono allora le scelte linguistiche adottate, nelle quali si può ravvisare la bramosia, il bisogno poco meno che compulsivo di esplorare ogni recesso del vocabolario. Tenendo bene in mente il magistero di alcuni degli auctores a cui la sua attività critica si è applicata con più forza ‒ da Pizzuto a Bufalino, da D’Arrigo a Consolo ‒, Alvino attinge al pozzo senza fondo del plurilinguismo. Il non breve catalogo degli elementi che esorbitano dall’italiano medio contempla francesismi (mouvance, en plain air, douceur de vivre, oltre alle molte occorrenze che tramano Les sentiments), anglicismi (bungalow, common ground, groggy), latinismi (abrupta/-e, curae, sit venia verbis, perfecta, toto corde), toscanismi (bruscolo, pretenzionoso), arcaismi (apertezza ‘franchezza’, calle, cerebro, innumeri, sanza, mi pastura ‘mi nutre’, serpigne), tecnicismi (borborigmi, sinapsi, oltre ai numerosi termini della filologia), neoformazioni (arciaffettivo, frescotagliato, gli pseudodiminutivi di cui è interamente composta Balestrina). Anche gli elementi della lingua comune possono essere sottoposti a torsioni, come mostrano la notevole resa transitiva di frusciare («odio frusciasti la poesia contemporanea») e soprattutto le frequenti univerbazioni grafiche, che dànno vita a nuove formazioni sostantivali o avverbiali (diopadre, donnamadre, fiancofianco, fiatocorto, Quelcheaccade, vallevalle).

Com’è perfettamente coerente in una scrittura in cui il peso delle singole parole è sempre molto ben percepibile, tra le figure retoriche un posto di primo piano ha la derivatio, che accostando termini legati più o meno strettamente dalla parentela etimologica mette in rilievo i rapporti, non sempre pacifici, tra di essi, in certo modo drammatizzandone la compresenza sulla scena verbale: «l’incolpevole colpa»; «se il pensiero si pensa e pensandosi frana»; «dell’anima animale»; «mai la veduta si fa visione»; «il volante un volano»; «mi guarda mi riguarda»; «toccare il toccabile / sentire il sensibile». Ad analoghi intenti di sottrarre il lessico alla sua funzione più banalmente comunicativa rispondono altre figure (tra cui paronomasie, metafore, similitudini, sinestesie), che forzano significanti comuni a restituire significati spiazzanti: «il tarlo cala il sipario»; «aureole di latta»; «asfalti come sepolcri»; «spazio infinito di odori concentrici»; «che tondo che mondo»; «la gallina blesa»; «nella strada virale»; «vivezza discorsiva incipriata / d’effetti di parlato».

Il nume tutelare di una scrittura di questa sorta è naturalmente il ghibellin fuggiasco, che a settecento anni dalla morte continua a fecondare l’immaginario e il linguaggio degli autori inclini alle sperimentazioni. Nell’iniziale Rondò alla turca viene esplicitamente richiamata un’espressione del De vulgari eloquentia («irsutum et yspidum»: così veniva definito il dialetto lombardo); ma un rimando dantesco è già contenuto nella dedica, in cui la destinataria dei versi appare come novella Beatrice («trenta di mille e mille» allude evidentemente a «quella ch’è sul numer delle trenta» di Guido i’ vorrei). Notevole poi l’invocazione Quid feci tibi? (dalla perduta epistola ai fiorentini, in cui Dante riprendeva a sua volta un versetto biblico), che chiude l’omonima poesia, una riattualizzazione dell’eterno odi et amo di ogni passione amorosa degna di questo nome. Qua e là inoltre affiorano dantismi lessicali, come burrato e gora.

I versi di Sala da musica sono tramati da un’intertestualità diffusa, che convoca poeti antichi e moderni: i trovatori provenzali («amor de lohn»), Cielo d’Alcamo (aulentissima), Baudelaire (chiamato apertamente in causa per «l’attesa di lei passante»), Pagliarani (di cui si riscrive, raddoppiandolo, un distico: «“Ho fumato duecento sigarette / per non amarti”. Quattrocento»). Una disamina linguistica rivelerebbe probabilmente citazioni implicite; quasi certamente, ad esempio, non è un caso che l’aggettivo sanguosa abbia un precedente nella prosa di Stefano D’Arrigo.

Il trattamento più interessante è riservato a Leopardi, il cui Infinito è irriverentemente fatto oggetto di stravolgimento, in un caso sottoponendo il celeberrimo explicit a un abbassamento in direzione della prosaica quotidianità, in cui inevitabilmente trovano luogo compromessi: «il mare dove senza téma / di naufragio navigo a vista» (i due versi costituiscono un’intera poesia, lapidariamente intitolata Lei); in un altro fantasticando molto felicemente di abbattere la parete divisoria tra il testo di partenza e quello di arrivo: «mentre Giacomo scavalca / la siepe per guardarci».

In coda a Les sensations viene citata una frase di una lettera leopardiana del 1834: «tolti alcuni pochissimi nèi / che mal si locano in mezzo a tant’oro». Nella maggior parte dei numerosi studi che richiamano il passo viene banalizzata la grafia, togliendo l’accento a nèi (che invece compare nell’edizione critica dell’epistolario). Il poeta-filologo non poteva fare un simile torto a Leopardi, tanto più che l’impiego dell’accento grafico disambiguante è sistematico nei suoi versi (prepàrati, sèntiti, tenére, e così via). Può sembrare ozioso chiudere una prefazione ad una raccolta di versi con un’annotazione così minuta: ma si può essere ragionevolmente certi che Alvino, nel suo «immutato / culto per quel grande dai corti baffini» (Gianfranco Contini), non se ne avrà a male.

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