Anno VIII - Numero 3/2022
Massimo Novelli
IL CASO LEA SCHIAVI
INTRODUZIONE di Maddalena Oliva
La sua storia, la storia della morte di Lea, fu raccontata per la prima volta nel programma tv They Live Forever: “Vivono per sempre”. Era passato pochissimo tempo da quel 24 aprile del 1942, il giorno in cui Lea Schiavi, 35 anni, giornalista antifascista di Borgosesia, venne uccisa in un’esecuzione premeditata, nei pressi di Miandoab, non lontano da Tabriz, la città più importante dell’Iran del Nord, allora quartier generale dell’Armata Rossa. “Vivono per sempre” era il titolo della trasmissione americana del ’42, ma Lea Schiavi, per il suo Paese, per l’Italia, è invece come se non avesse vissuto, come non fosse mai esistita. È stato così per quasi ottant’anni. Nessuna menzione negli elenchi delle associazioni antifasciste e della Resistenza. Non un ricordo da parte dei circoli femministi, né, tanto meno, dall’Ordine dei giornalisti. A sottrarre all’oblio quel nome sono state la caparbietà e la passione di un giornalista e scrittore, Massimo Novelli. E, sulla sua scia, un giovane sindaco, Paolo Tiramani, oggi parlamentare per la Lega Nord, che ha deciso – il 25 aprile 2021 – di intitolare a Lea i giardini pubblici di piazza Martiri a Borgosesia: “A Lea Schiavi, coraggiosa e attenta reporter politica, nata a Borgosesia nel 1907 e deceduta in circostanze misteriose in Iran nel 1942”. Eppure, al Freedom Forum Journalists Memorial del Newseum di Washington, che dal 1996 ricorda i corrispondenti di guerra uccisi nell’esercizio del proprio lavoro (2.355, a oggi), il nome di Lea è il primo tra quelli delle reporter donna. Chi era dunque l’italiana Lea Schiavi? “Sei un comunista?”, chiese Maria. “No, sono un antifascista”, rispose Robert Jordan. “Da molto tempo?”. “Da quando ho capito il fascismo”. Non sappiamo se Lea ebbe modo di leggere Per chi suona la campana di Ernest Hemingway. Molto probabilmente sì. E non solo perché in vita fosse sposata con un americano, Winston Burdett, giornalista e
corrispondente di guerra per la famosa CBS (Burdett fu, tra tante cose, uno degli “Ed Murrow Boys”). Ma pure perché, per chi conobbe Lea Schiavi Burdett, il primo ricordo era sempre: “Lea di se stessa diceva di essere antifascista”. Lo scrive allora George Weller, corrispondente di guerra e Premio Pulitzer, che aggiunge: “È improbabile che Lea fosse comunista”. Perché? Per “il suo chiassoso e allegro senso dell’umorismo. Le donne italiane sono ricche di fascino, ma Lea era anche spiritosa. La sua specialità erano le storie incredibilmente divertenti di disavventure femminili”. Era una donna che, nonostante tutto, rideva, rideva di cuore. Capace di riempire di sé tutta l’aria intorno. Scorrendo le pagine che vi ritroverete a leggere, così la vedrete. Lea, piccola, con suo fratello Giovanni, a fantasticare di diventare una giornalista famosa. Lea che muove i primi passi nella critica teatrale e cinematografica, tra Marlene Dietrich e Isa Miranda, e che scrive due manuali per “saper vivere”, due galatei moderni. Lea a Milano, al ristorante Bagutta, seduta al tavolo coi colleghi maschi, assieme a Guelfo Civinini del Corriere e a un altro collega della Gazzetta dello Sport, quando “rivolgendosi ad alcuni commensali, la signorina Schiavi definì il Duce un muratore e il Fuhrer un imbianchino”, secondo la più antica annotazione di polizia sul suo conto (era il 1938). E ancora: Lea e il suo primo viaggio da inviata per l’Ambrosiano a Belgrado. La missione era scrivere di costume e di storia, ma nei suoi pezzi, pur parlando d’altro, inizia a spirare quell’alito di morte che avvolge l’Europa. Lea che incontra l’amore della sua vita, Winston Burdett, con cui girerà il mondo correndo dietro all’attualità e raccontando e scattando, fino all’ultimo giorno. Lea, inviata speciale, un’eccezione per quei tempi, capace di “eguagliare i giornalisti maschi nel bere”. Lea, che “non poteva, per sua natura, prendere mai sul serio niente che non fosse avventura e imprevisto”, come ricorda nel 1955 Antonio Siri sul Corriere d’informazione. “È veramente un portento”, scriverà il suo amato Winston in una lettera a un amico. E per il modo in cui ha vissuto, e per quella stessa
curiosità e vitalità che l’hanno portata al giornalismo, Lea Schiavi non poteva che essere antifascista. Nel notevole sforzo e ricerca di verità su questa figura dimenticata che Massimo Novelli fa col suo libro, c’è anche questo: il tentativo di restituire profondità e contorni a una vita di una giovanissima donna, i cui sogni, “in quel declinare degli anni Trenta, dovettero fare i conti con la realtà”. Una realtà di morte. “I combattimenti di Spagna, il sangue che scorreva in Asia, e la paura che presto una guerra avrebbe sconvolto tutta l’Europa. Hitler aveva inghiottito l’Austria, stava per prendersi la Cecoslovacchia e la Polonia, nessuno sembrava volerlo fermare. I pogrom contro gli ebrei in Germania e in Austria, il nazismo faceva proseliti nei Balcani...”. È proprio quando si affaccia alla vita, quando inizia a viaggiare per raccontare, che in Lea matura una insofferenza crescente: per l’Italia dei gerarchi, per le leggi razziali, per Mussolini (sul cui nome sputava ogniqualvolta lo pronunciasse). Intravede il baratro. Con una consapevolezza che ha dell’incredibile, se si raffronta al modo in cui intellettuali e artisti, italiani ed europei, vissero il decennio che precedette la Seconda guerra mondiale. All’inizio, Lea viene solo tenuta d’occhio, come per migliaia di nostri connazionali “non allineati”. I suoi articoli passano al vaglio della censura fascista. I rapporti al Ministero dell’Interno iniziano però a intensificarsi. Arriva, per lei e il marito, il provvedimento di espulsione dalla Romania per “propaganda antilegionaria”, e poi dalla Jugoslavia. E infine il mandato di arresto, su suolo italiano. “Era una giornalista sinceramente antifascista. E sebbene lo fosse, per un po’ riuscì a mantenere il suo lavoro e a continuare a scrivere per le due riviste italiane, letterarie e politiche, l’Ambrosiano e Tempo, a cui collaborava all’epoca in cui la incontrai, all’inizio del giugno del 1940 – è il marito Winston che parla, in una delle testimonianze che Novelli recupera nel corso della sua indagine – Lea era una persona di coraggio quasi audace. Era estremamente schietta, e per questo motivo era una fonte costante di imbarazzo per le autorità italiane in qualunque
Paese ci capitasse di viaggiare. L’avevano privata del passaporto. (...) Devo aggiungere che, ovunque andassimo, era cordialmente odiata dagli italiani, dalle autorità del governo fascista italiano”. Marito e moglie decidono, ormai costretti, di rifugiarsi in Turchia e poi in Iran. Qui Lea, annota il SIM, Servizio segreto militare, “lavora per i giornali americani e fa propaganda antifascista. Al Cairo dicono che sia legata all’Intelligence Service, a cui segnala i connazionali rimasti in Iran, e che abbia aderito al Free Italy Movement che alcuni elementi anti nazionali hanno costituito a Londra. Quindi intensificare i controlli sui signori Burdett”. Fino al 24 aprile 1942. Fino al giorno in cui Lea Schiavi viene uccisa. La ricostruzione dell’agguato da parte dell’amica armena, Zina Aghayan, che viaggiava con lei in Kurdistan, fu molto precisa: l’auto venne bloccata nelle vicinanze di Miandoab da “due gendarmi, o guardie stradali. Il più anziano prima si era accertato dell’identità di Lea; poi, dopo avere avuto la certezza di avere di fronte la giornalista Burdett, le aveva sparato, uccidendola”. Restano i misteri. Chi aveva ucciso Lea Schiavi Burdett? Era stata eliminata perché come giornalista “she knew too much”, sapeva troppo, secondo quanto il marito Winston avrebbe dichiarato nel 1955, davanti al Senato, dopo aver confessato di essere stato un comunista fino al 1942? O l’avevano ammazzata perché era un’antifascista? Oppure il delitto poteva avere a che fare con lo spionaggio, visto che nel 1940 le autorità filo-tedesche della Jugoslavia e quindi quelle di Roma avevano insinuato che fosse anche lei una spia? O, ancora, era stata eliminata dai russi per dare una lezione a Burdett, dopo la rottura col comunismo? Tutte domande sucui si interroga Novelli in un clima da Guerra di spie, per citare il titolo del libro di Mimmo Franzinelli, che per primo cercò di non far calare
il sipario sulla morte di Lea. Possono essere stati gli italiani, o forseanche i tedeschi, oppure proprio i russi: tutti “operavano” in quella zona, tra Iran, Azerbaijan e Kurdistan. E qui Massimo Novelli scrive un libro nel libro: quasi fosse un investigatore, si mette sulle tracce
di Lea Schiavi e ne ricostruisce tutti i passi, gli spostamenti, quasi i pensieri. Perché, come dice la citazione di Eric Ambler con cui l’autore apre il libro: “L’importante, in un assassinio o tentato assassinio politico, non è sapere chi ha sparato, ma chi ha pagato le pallottole”.
In questo giallo che resta oggi senza colpevoli – la procura di Roma aprì un’indagine, ma archiviò il caso senza sentire un testimone, e il mandante di questo omicidio su commissione rimase ignoto – è impossibile svelare tutte le trme e gli intrighi. Il caso Lea Schiavi. Indagine sulla morte di una giornalista antifascista sarebbe una sceneggiatura perfetta, se non fosse tutta realtà. L’ultimo reportage di Lea uscì postumo, su PM. Dall’Iraq, tra i “palazzi dei mercanti, circondati da rampicanti in fiore, ombreggiati da palme, ornati di lignee colonne gotiche dipinte e scolpite”. Le fotografie che Lea scattò giunsero negli Stati Uniti mesi e mesi dopo, nel 1942. Vennero pubblicate contestualmente al suo necrologio, come primo ricordo, come omaggio da parte del mondo libero. A distanza di 80 anni, a far sembrare il suo Paese, l’Italia, mondo libero, è servito un libro. Un libro che, prima di tutto, è un abbraccio. Col sapore di quel “Cara Lea ti abbraccio teneramente” che Winston Burdett fece incidere sulla tomba della moglie, nel cimitero cattolico di Tabriz, in italiano. Proprio lì, dove Lea Schiavi è sepolta.