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Pe la Critica

GIORGIO MOIO

FINZIONI – INTERVISTE FANTASMA

di Lamberto Pignotti
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«Se lo avessi voluto dire, l’avrei detto», disse André Breton a chi gli aveva chiesto di cosa trattasse una sua poesia surrealista. Bene. Giorgio Moio glielo fa dire.
«Di cosa si tratta?… Niente meno che di ritrovare il segreto di un linguaggio i cui elementi cessano di comportarsi come relitti alla superficie di un mare morto».
È una delle risposte falsamente autentiche e autenticamente apocrife che Moio, nelle sue Finzioni. Interviste fantasma fa dare a 49 personaggi gustosamente piluccati fra le più eterogenei delle categorie: letteratura, arte, filosofia, teatro, musica, politica…

Alla rinfusa si va da Jorge Luis Borges a Lucio Battisti, da Tristan Tzara a Jim Morrison, da Jean-Paul Sartre a Carmelo Bene, da Ennio Flaiano a Maurice Blanchot, da Confucio a Adriano Spatola, da Ettore Petrolini a Giacomo Leopardi, da Giorgio Manganelli a Luigi Tenco, da Herbert Marcuse a Emilio Villa, da Rose Luxemburg a Demetrio Stratos, da Mirella Bentivoglio a Blaise Pascal, da Achille Campanile a Samuel Beckett…
49 personaggi, 49 finzioni: perché non arrivare alla cifra tonda? (ma 49 erano anche i racconti di Hemingway…). Sorridendo mi viene da pensare che il cinquantesimo si sia avvalso della facoltà di non rispondere…

È a questo punto che debbo confessare l’interesse che fino a prima vista mi hanno fornito queste Finzioni, interviste fantasma. Già, perché a me piacciono le interviste dove l’intervistatore non è tenero con l’intervistato, non gli porge con riverenza il piatto, non gli fa da compiacente spalla, e dove l’intervistato non appare come il grande personaggio pronto a rovesciare addosso ai malcapitati l’overdose del proprio super ego e non rifugge da una modica dose di autoironia. A questi requisiti corrispondono i soggetti di queste interviste fantasma che Moio intitola «Finzioni».

«Finzioni»?
A sfogliare il Palazzi-Folena la finzione è «un atteggiamento ipocrita», una «doppiezza», un’«impostura», addirittura una «frode», insomma vien da prendere le debite distanze da una connotazione simile, e pure per il Devoto-Oli si tratta, sì, di «una condotta falsa o simulata», ma anche -addolcendo alquanto la connotazione – di una «rappresentazione operata dall’immaginazione».

Tutto ciò per avanzare ti sospetto che Moio si avvalga del paradosso del mentitore, un po’ come fa William Xerra quando imprime il suo «Io mento» sulle sue opere verbovisive.  Andiamo ora a vedere cosa si chiede in queste Finzioni a Giorgio Manganelli:

 

Perché ogni scrittura racchiude in sé un puro gioco di forme che per diventare contestazione deve rinascere come parodia sarcastica, attraverso una prosa raffinata e funambolica.

«Menzogna», «puro gioco di forme», «parodia fantastica»: non bisogna sottovalutare l’interazione fra gioco e regole del gioco. Un meccanismo analogo muove del resto i rapporti fra poesia e poetica. Se da un lato è impensabile un gioco senza regole, dall’altro esse vanno variate, cambiate, infrante di continuo altrimenti il gioco diventa abitudine. Al limite, come l’artista e l’estetologo hanno ben compreso, il gioco consiste proprio nell’inventare le regole del gioco, riflettendo sapientemente sui modi e sui ricambi di esse.
Emblematica è la domanda che Moio rivolge a Andrea Zanzotto circa il suo linguaggio poetico:

     -E il suo, su cosa si basa?
     Ha varie posizioni di lettura come deve essere un sistema linguistico che fonda e organizza l’esperienza della parola arbitrariamente rispetto alla realtà.

Non è sempre agevole muoversi sulle sabbie mobili del linguaggio letterario e critico. «Può dirci qualcosa di più?», chiede l’autore a Roland Barthes.
E poi: «Non è che ci abbia capito un granché». Incomprensioni anche per Walter Benjamin: «Non ho capito granché»… «Mi scusi ma non riesco a seguirla»… Apoteosi della verosimiglianza!
L’interazione fra gioco e regole del gioco, fra le “finzioni” e le convenzioni di una intervista si fa sottilmente e grottescamente realista nel pezzo dedicato a Maurice Blanchot:

     E lei perché scrive?
     – Se permette le domande le faccio io!

Le domande le fa Giorgio Moio, e le regole del gioco le fa dunque lui: è un gioco critico a incastri successivi che date le circostanze non esclude una certa scorrettezza e perfino l’eventualità di barare al gioco. Coinvolto un personaggio lui si fa dire ciò che gli piace fargli dire e poi non esita a tirargli le orecchie…

“Per favore, si spieghi meglio”, rimprovera uno scocciato Moio a Bertolt Brecht…
C’è una figura retorica che consiste nel dire cose opposte a quelle che si vogliono intendere, lasciando però intravedere la verità con lo scopo di criticare più o meno bonariamente: si chiama ironia e si manifesta con una certa visibilità in queste pagine che più intrigantemente fanno intravedere la presenza di altre più nascoste figure.

L’attualizzazione e la trascrizione di un passato in chiave di attualità può far pensare che il «fantasma» di queste “interviste” possa essere rappresentato dall’allegoria.
Il fatto che il discorso qui proceda secondo differenti direttrici semantiche, per similarità e opposizione, può indurre a usare alternativamente ora la chiave della metafora ora quella della metonimia.

Alberto Moravia negli Indifferenti dice che a forza di fingere si finisce per credere. Le interviste di Finzioni funzionano credibilmente a un tempo come critica e come fanta-critica, stanno al posto della critica, sono supplenti della critica, in assenza della titolare di ruolo. C’è da sbizzarrirsi alla ricerca delle criptiche figure messe qui in atto dalla topografia di Giorgio Moio. Che essendo un poeta visivo, autore di una recente raccolta di “Segni sparsi e dispersi”, dimostra di sapersi agilmente muovere tra figure da intendere e voci da ravvisare

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