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PER LA CRITICA

ACCOPPIAMENTI GIUDIZIOSI

GOVONI E LA NATURA MORTA

di Marcello Carlino

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Nel quadro delle esperienze culturali di Corrado Govoni, sul cominciare del Novecento primeggia, quel che è noto, la poesia crepuscolare d’area franco-fiamminga, che presta alle pagine di Armonia in grigio et in silenzio (1903) climi e atmosfere, luoghi serotini di appartatezza, mute parvenze monacali, borghi risparmiati da urbanizzazioni tentacolari, colori fattisi tenui fino a spengersi. E a forza di silenziamenti riservati all’io, un io alonato di malinconia (il tedio è qui convertito in una disposizione malinconica), quella dell’io è un’uscita di scena ovvero un’autoriduzione al ruolo, dietro le quinte, di chi semplicemente osserva e descrive, interdettagli ogni azione.

Perciò gli oggetti guadagnano la ribalta; e non hanno, nel grigiore su di essi steso dallo sguardo malinconico dell’io, una portanza simbolica che li distingua sacralizzandoli. Proprio la loro resistenza ad una significazione altra, che trascenda il loro mero esserci e che rilegga la loro apparenza come trasfigurandola, e intanto, nello spazio della scrittura poetica, il loro sottrarsi all’uso, anche quello sostenuto da una infusione di supplementi connotativi, li consegna ad una impassibilità da sfingi, ad una enigmatica immobilità. In questa speciale sua accezione, Govoni inaugura una poesia di oggetti che si caratterizza per il fermo delle immagini, per la loro distrazione o ir-relazione, per un depotenziamento fino quasi alla cancellazione del tessuto connettivo della rappresentazione in versi, che infatti si nega al racconto.

Non sono soltanto d’origine da Bruggia e dai suoi dintorni gli oggetti collezionati da Govoni. Nella circuitazione internazionale intitolata al liberty, promossa inoltre dal gallerismo che accompagna il movimento degli impressionisti con la vetrina di un décor d’area orientale – un décor pure merceologico a cui rimontano, nel contesto europeo, alcune aperture di stile –, materie e manufatti d’Asia, giapponeserie e cineserie, fascinosi composti esotici prendono a popolare l’immaginario a servizio dell’arte. Porcellane e souvenir di caolino compaiono così con un marchio di fabbrica d’oltre i confini d’Europa, e fanno mostra importati e trascritti, in Armonia in grigio et in silenzio. Esibiti,  predicati d’esotismo acuiscono la nota dominante della enigmaticità, della ritrazione dal e della sospensione del senso comune, dello stesso senso comune dell’arte. La loro gestione per assemblaggio suggerisce la possibilità di una corrispondenza: sono nature morte che idealmente e virtuosamente si accoppiano, risultando da una commutazione in versi, con le nature morte in pittura. Quelle nature morte che nella pittura fiamminga hanno meritato un posto di particolare rilievo.                 

Legata ad una committenza borghese, impiegata a scopo di nobilitazione degli ambienti d’interno quale segno di abbondanza economica e di distinzione di classe, equivalente bidimensionale delle camere delle meraviglie ben provviste di frutti generosi del regno animale e di quello vegetale, conforme alla opulenza carnascialesca che chiede trionfi di cibarie alla vigilia (e per differimento apotropaico) delle restrizioni della quaresima, la natura morta comincia a fermarsi sulla tela nell’ultimo scorcio del Quattrocento e vi compare sempre più di frequente tra Cinquecento e Seicento. Quando pure sulla scena fa capolino il logo prequaresimale del memento mori – che declina un senso possibile del nome di specie – rappresentato da un insetto che sta in agguato e pronostica la putrefazione, l’ingaggio non è niente di più di un minuscolo contrappeso di devozionale scongiuro: l’oggettistica resta in tripudio, esuberante e succulenta, in una pittura tutta cose, indisponibile ad ambientare il personaggio-uomo, che semmai le ha rilasciato procura. Esemplari in territorio d’arte fiammingo se ne contano a bizzeffe, prima di divenire genere, moda internazionale; e un “fiammingologo” come Govoni doveva saperne. Per altro la vetrina degli oggetti in mostra presto s’allarga; e tra mappamondi e alambicchi e caraffe e ninnoli e strumenti musicali, la natura morta sembra come nutrirsi di collezionismo, al quale Benjamin ha dedicato analisi di grande acutezza, forti di pensiero critico.

Chi vuole non farà fatica a trovarne reperti nella storia dell’arte occidentale; basterà compulsare, tra gli altri che non inscenano cibarie, il Maestro fiammingo e olandese con il suo scaffale del 1538 e Van de Velde e Pieter Claesz e, per stare nell’Italia del Settecento, Baschenis che predilige strumenti musicali a corde.

Govoni, nei testi giovanili, è facile verificare che visualizza con le parole oggetti che sembrano di natura morta: oggetti da citazione che hanno perso rinvii a deputazioni sociali e a grassi privilegi di classe e che  sono sottratti alla estetizzazione raffinatamente superomistica di cui si bea D’Annunzio, natura morta che si nega a rappresentare per procura il personaggio-uomo e che nella sua immobilità dismette il racconto (che invece è centrale nella gestione delle specialissime nature morte di Gozzano, altro straordinario praticante). Apparentato alla natura morta appare anche più tardi Il palombaro, curiosissima tavola parolibera di Govoni, che nella sua fedeltà alla lentezza e al fermo-immagine non mi sembra affatto congruente con il futurismo ufficiale, quello dei manifesti che predica dinamismo, simultaneità.         

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