Anno VIII - Numero 3/2022
Edoardo Sanguineti
Le ceneri di Pasolini
I.
In questo giorno del settantanove,
in questi incontri postelettorali
delle sezioni genovesi, alle Feste
dell’Unità, sopra l’asfalto
dei lungobisagni, negli stenti
giardinetti del volontariato comunale,
ti penso un’ultima volta, e ti parlo,
ritrovato nei tuoi timidi nipotini.
II.
Se l’omologazione è riuscita, è perché
ha proletarizzato e sotto proletarizzato
questi adolescenti sradicati, amputati
di ogni coscienza di classe, che si dibattono
nel ghetto della loro fascia d’età,
questi etero diretti dal dominio,
che ravvolti, frustrati, nel silenzio,
non sanno ancora di poter volere.
III.
Li guardo come stanchi devoti
di una religione disperata, li vedo
fantasticare, nel terrore, la grazia
orgasmatico di un esistere nudo,
così incerti nell’individuare chi li odia,
così incapaci di sentirsi compagni,
di elaborarsi il lutto del loro dio.
IV.
Questa vecchia Italia è una tetra rovina,
se è ignara già del suo passato, inferiore
a ogni nostalgia di futuro, in questo impraticabile
presente, se praticabile è soltanto,
oggi, l’inconscio. E quelli, ossessionati
dagli spettri informi del Palazzo e del Potere,
volgono gli occhi riflessivi e timidi,
affascinati da questa bellezza funeraria.
V.
Sono con te, nel cuore e nelle viscere,
che mi ritorni come fratello infelice,
con fame di ragione, tu estetico
ed erotico, con necessità di realtà,
mistico del desiderio visionario,
con la voglia di politica, ma ancora
tormentato tanto dall’eccesso di cruda
concretezza, che si incarna nel bisogno.
VI.
Sei stanco di essere libero dal niente,
e per il niente. Rifiorisce, sopra le tue amare
labbra di libertario in angoscia,
la domanda di Lenin, che dice:
ma libero con chi? E chiedi, ai maturi
operai, l’autorità che nasce
dal lavoro, la responsabilità di scegliere
dentro l’esperienza, la fatica, la storia.
VII.
Nell’impoetico mondo muore, poeta
assassinato, la nostra preistoria, e la fine
di questo decennio ci riporta, rigidi,
i segni lucidi della lotta
egemonica, riconduce alla coscienza
la coscienza che non è natura, quella
allegria proletaria, ma è conquista, e che
la società, non la vita, è da rifare.
VIII.
Da rifare è la vita come oblio
accorato e violento, da possedere
è una storia che ci possiede, e non c’è
più passione di essere al mondo,
se non è questa fredda passione
di ragione, che accetta di riconoscerlo
e mutarlo, per produrlo diverso, e umano,
più umano, troppo umano.
IX.
Ho un po’ ripreso, in falsetto, la tua voce
morta. Ma ho dolore e furore, soltanto,
che le tue ceneri si perdono, nei riti
dei tuoi fedeli, reliquie per altari
folclorici riconsacrati, mio sacerdote dell’io,
mio usignolo ecclesiastico, mio estremo
fantasma cattolico e sadico, mio sterile edipo
castratore, nostro eterno padre.