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100 PASOLINI

Edoardo Sanguineti

Le ceneri di Pasolini

I.

 

In questo giorno del settantanove,

in questi incontri postelettorali

delle sezioni genovesi, alle Feste

dell’Unità, sopra l’asfalto

dei lungobisagni, negli stenti

giardinetti del volontariato comunale,

ti penso un’ultima volta, e ti parlo,

ritrovato nei tuoi timidi nipotini.

 

II.

 

Se l’omologazione è riuscita, è perché

ha proletarizzato e sotto proletarizzato

questi adolescenti sradicati, amputati

di ogni coscienza di classe, che si dibattono

nel ghetto della loro fascia d’età,

questi etero diretti dal dominio,

che ravvolti, frustrati, nel silenzio,

non sanno ancora di poter volere.

 

III.

 

Li guardo come stanchi devoti

di una religione disperata, li vedo

fantasticare, nel terrore, la grazia

orgasmatico di un esistere nudo,

così incerti nell’individuare chi li odia,

così incapaci di sentirsi compagni,

di elaborarsi il lutto del loro dio.

 

IV.

 

Questa vecchia Italia è una tetra rovina,

se è ignara già del suo passato, inferiore

a ogni nostalgia di futuro, in questo impraticabile

presente, se praticabile è soltanto,

oggi, l’inconscio. E quelli, ossessionati

dagli spettri informi del Palazzo e del Potere,

volgono gli occhi riflessivi e timidi,

affascinati da questa bellezza funeraria.

 

V.

 

Sono con te, nel cuore e nelle viscere,

che mi ritorni come fratello infelice,

con fame di ragione, tu estetico

ed erotico, con necessità di realtà,

mistico del desiderio visionario,

con la voglia di politica, ma ancora

tormentato tanto dall’eccesso di cruda

concretezza, che si incarna nel bisogno.

 

 

 

 

VI.

 

Sei stanco di essere libero dal niente,

e per il niente. Rifiorisce, sopra le tue amare

labbra di libertario in angoscia,

la domanda di Lenin, che dice:

ma libero con chi? E chiedi, ai maturi

operai, l’autorità che nasce

dal lavoro, la responsabilità di scegliere

dentro l’esperienza, la fatica, la storia.

 

VII.

 

Nell’impoetico mondo muore, poeta

assassinato, la nostra preistoria, e la fine

di questo decennio ci riporta, rigidi,

i segni lucidi della lotta

egemonica, riconduce alla coscienza

la coscienza che non è natura, quella

allegria proletaria, ma è conquista, e che

la società, non la vita, è da rifare.

 

VIII.

 

Da rifare è la vita come oblio

accorato e violento, da possedere

è una storia che ci possiede, e non c’è

più passione di essere al mondo,

se non è questa fredda passione

di ragione, che accetta di riconoscerlo

e mutarlo, per produrlo diverso, e umano,

più umano, troppo umano.

 

IX.

 

Ho un po’ ripreso, in falsetto, la tua voce

morta. Ma ho dolore e furore, soltanto,

che le tue ceneri si perdono, nei riti

dei tuoi fedeli, reliquie per altari

folclorici riconsacrati, mio sacerdote dell’io,

mio usignolo ecclesiastico, mio estremo

fantasma cattolico e sadico, mio sterile edipo

castratore, nostro eterno padre.

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