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Storia, Cultura e Società

LA QUESTIONE UCRAINA

NOTE E COMMENTI NEL CORSO DEGLI EVENTI

di Aldo Pirone
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Il 25 febbraio 2022, preannunciata da lungi dalla CIA e "inaspettata" completamente dall'Europa, viene scatenata da Putin l'aggressione armata all'Ucraina. Al momento in cui andiamo in rete né la guerra è conclusa né, secondo le recenti dichiarazioni di Putin, e in verità dopo le più recenti azioni di Biden e Johnson, appare prossima una semplice tregua. Né le “dure sanzioni” hanno avuto il minimo effetto su Putin, se non quello di rafforzarne il consenso in Russia. In questi lunghi giorni di guerra, intanto, l'operazione militare che, sempre secondo le dichiarazioni, e forse le stesse intensioni di Putin, doveva essere una piccola Blitzkrieg con target unicamente militari (ma col non celato obiettivo di rovesciare l'attuale governo e il presidente ucraino per sostituirlo con un quisling) si è trasformata in una guerra di distruzione di massa di stragi e di crimini bellici, al livello dei giorni più gloriosi della Seconda..., e di certe altre piccole guerre, talune ancora in corso, che hanno punteggiato e illuminato a giorno le notti di mezzo mondo dal '46 in poi. Ordinari, come in ogni guerra di questo tipo, i massacri dei civili, le deportazioni e gli esodi, la distruzione di case scuole ospedali università, gli eccidi criminali, la devastazione materiale e morale di un popolo.

La questione ucraina, mettendo nell'ombra o nel dimenticatoio tutte le altre questioni fino a quel momento supreme..., è divenuta nella vita del nostro Paese, come ovviamente di tutta l'Europa, la questione centrale: tema argomento e contenuto delle scelte e decisioni statali, e del dibattito confronto e scontro delle forze politiche associative economiche e culturali di ogni tendenza.

Il nostro Aldo Pirone, uomo di sinistra, storico di vaglia (autore fra l’altro di un approfondito e documentato libro sulla Resistenza italiana – Cinque anni che sconvolsero l’Italia) ha partecipato a questo confronto con note e commenti che hanno toccato tutte le questioni della questione, delineando via via la posizione – come sempre da parte sua non talmudica, non manichea, ragionativa e basata sui fatti – di una sinistra che anch’essa c’è.

La lettura, attenta e non frettolosa, di queste note crediamo possa giovare non solo ad una maggiore comprensione anche storica della Questione Ucraina, ma anche alla delineazione del nostro – nostro italiano ed europeo – dover essere e fare. (mq) 

 

 

 

GIÙ LE MANI DA LENIN

[22.2.22]

 

Secondo Putin l’Ucraina non esiste. La sua creazione fu un “errore” di Lenin. “L'Ucraina è stata creata dalla Russia. – ha detto ieri - Fu Lenin a chiamarla in questo modo, è stato il suo creatore e il suo architetto. Lenin aveva un interesse particolare anche per il Donbass". Il capo della Russia di oggi, mutatis mutandis, si sente, infatti, erede dell’impero zarista russo. Quell’entità reazionaria che fu chiamata “prigione dei popoli”.

Su Lenin ha perfettamente ragione. Fu lui, sin dal 1914, polemizzando anche con Rosa Luxembourg, a perorare in un lungo articolo di tre puntate scritto nel 1914, la causa dell’autodecisione delle nazioni fino alla separazione. Poi sulla questione fu in contrasto con Stalin negli anni postrivoluzionari quando fu creata l’Urss. Fu Lenin a volerla come libera unione di 15 Repubbliche socialiste tra cui L’Ucraina. Egli vide bene il risorgere, anche tra le file bolsceviche, del nazionalismo grande russo cui oggi si richiama Putin insieme all’irrisione per la democrazia liberale. Lo considerò nemico dell’internazionalismo comunista che aveva presieduto alla Rivoluzione d’Ottobre. Poi, con Stalin, l’Urss e il comunismo ebbero un’altra storia.

Il fatto è che le logiche di potenza, i revanchismi e i nazionalismi – cosa diversa dal sentimento nazionale e l’aspirazione all’indipendenza dei popoli - sono da sempre nemici della pace e dell’internazionalismo. Comunque si manifestino: o sotto specie di Nato e Atlantismo espansionistico (com'è stato dalla caduta dell’Urss in poi) o sotto specie di nazionalismo, sia esso ucraino, polacco, magiaro o grande russo. La crisi ucraina ne è la prova vivente. Oggi l’imperativo del momento è far tacere le armi e negoziare. L’escalation di azioni militari russe e di ritorsioni economiche occidentali non sono la soluzione, sono il problema. Occorre parlarsi e non fare propaganda. Bisogna assicurare la Russia che la Nato non si estenderà in Ucraina in cambio dell’integrità dei suoi confini e dell’autonomia delle regioni russofone. Quanto all’Ucraina e, più in generale, ai paesi del vecchio Patto di Varsavia, occorre che l’Unione europea dica loro chiaramente che senza una democrazia fondata sullo stato di diritto che espunga da sé ogni tentazione nazionalistica e revanchista, non c’è appartenenza all’Europa democratica e solidale “né antiamericana né antirussa”.

 

 

PUTIN, UN NUOVO MAOMETTO PER L’EUROPA?

FRA ATLANTISMO ED EUROPEISMO

NON DEVE ESSERCI IDENTIFICAZIONE

[28.2.22]

 

L’invasione russa dell’Ucraina attuata da Putin ha colto l’Unione europea in braghe di tela, come suole dirsi, attaccata alla canna del gas di Gazprom da una parte e a quella militare della Nato a direzione americana dall’altro.

L’aggressione di Putin è grave, riporta la guerra nel cuore d’Europa, mostra al mondo intero cos’è il nazionalismo grande russo e quanto esso sia pericoloso perché in possesso di armamento atomico. Ha cambiato in pochi giorni le priorità dell’Europa se non del mondo. Non è qui il caso di ripetere quanto il risveglio aggressivo dell’Orso russo sia stato progressivamente sollecitato dagli errori occidentali dall’89 in poi, con l’espansione della Nato e le fallimentari guerre angloamericane in medio Oriente all’insegna dell’ “esportazione della democrazia” occidentale finite nella rotta vergognosa in Afghanistan dell’estate scorsa ecc. Il tutto all’ombra di una supremazia statunitense nel mondo che gli americani hanno creduto ormai assodata per sempre dopo l’implosione dell’Urss e del “socialismo reale”.

L’imperativo dell’ora è fermare la guerra, sconfiggere l’aggressore, preservare l’integrità territoriale dell’aggredito, tornare al negoziato e alla pace.

Ma per l’Europa si pone con urgenza il salto a un soggetto politico democratico e solidale e a una propria e autonoma forza militare difensiva. L’azione di Putin nel tempo medio breve potrebbe innescare nell’Unione europea qualcosa di simile a ciò che innescarono oltre un millennio fa Maometto e la conquista araba del Mediterraneo, cioè la realizzazione dell’unità europea sotto Carlo Magno e la dinastia carolingia. Putin potrebbe essere per l’Unione europea, mutatis mutandis, il Maometto dell’epoca attuale.

Quattro sono le questioni su cui concentrare l’attenzione.

Primo. Da subito occorrerebbe procedere all’unificazione di una comune politica energetica che sottragga la Comunità europea a un unico grande fornitore di gas, tanto più se esso ha il volto di Putin. L’obiettivo strategico della diversificazione dei fornitori e dell’aumento delle fonti rinnovabili è divenuto più urgente. Al tempo stesso l’Ue dovrebbe puntare decisamente, nel medio periodo, ad accelerare i tempi per la realizzazione dell’energia da fusione nucleare mettendo da parte ogni strumentale riproposizione di quella da fissione nucleare.

Secondo. Unificazione vera della politica estera. Deve scomparire il balletto visto in questi giorni di leader e ministri degli esteri dei singoli paesi europei che vanno in processione dall’autocrate russo, anche se animati dalle migliori intenzioni di questo mondo. L’Unione europea deve poter parlare con un’unica voce.

Terzo. È urgente realizzare una difesa europea anche nucleare (la Francia già ce l’ha) che renda obsoleta la Nato. La Russia o chiunque nel mondo, per esempio la Cina ma anche gli Stati Uniti, dovrebbero in futuro confrontarsi con un’Unione europea dotata di un proprio armamento e di proprie forze armate. Senza di ciò, l’Unione rimane sempre un nano politico nonostante la sua forza economica. Se la Difesa comune fosse stata già una realtà, probabilmente il discorso con la Russia oggi sarebbe diverso.

Quarto. Tutto questo potrebbe essere pericoloso – un altro soggetto armato con testate nucleari tra i tanti che infestano il pianeta - se non fosse saldamente legato a due altri elementi costitutivi dell’unità europea: la democrazia sociale e progressista fondata sullo stato di diritto e la politica di pace in un’Europa né antiamericana né antirussa. A questo proposito occorre stabilire che gli Stati, in particolare oggi quelli dell’est europeo già facenti parte dell’Urss o del Patto di Varsavia (dagli Stati baltici alla Polonia, dalla Cekia e Slovacchia all’Ungheria, dalla Romania alla Bulgaria ecc.), non possano far parte dell’Unione europea e della sua Difesa comune se non aderiscono pienamente ai valori sociali e solidaristici europei e allo stato di diritto, espungendo da sé ogni nazionalismo sovranista e revanscista e ogni tentazione alla “democratura” illiberale.

La questione da come l’Europa esce dal conflitto con la Russia di Putin in Ucraina, dunque, non è per nulla secondaria. L’alternativa in prospettiva è fra un atlantismo impersonato dalla Nato che non va per il sottile riguardo ai suoi aderenti antidemocratici (vedi la Turchia di Erdogan, l’Ungheria di Orbàn, la Polonia di Morawiecki ecc.) e che tiene soggiogata l’Unione europea agli interessi statunitensi – con tutte le incertezze che riguardano la tenuta della democrazia americana (il trumpismo dei repubblicani) – e un europeismo democratico e solidale, da realizzare, che si propone di svolgere un ruolo di pace sul piano globale e con i propri vicini. E ciò ha un valore anche nell’immediato per ciò che riguarda le soluzioni per salvaguardare l’integrità dell’Ucraina e fermare l’aggressore.

Non a caso oggi a eccitarsi sono gli atlantisti anche quelli che furono gli esaltatori e gli ammiratori di Putin fino a ieri (Berlusconi, Salvini, Meloni) ma anche quelli che rimpiangono l’atlantismo della vecchia cara guerra fredda.

Fra atlantismo ed europeismo non c’è identificazione.

 

MIELI CON L’ELMETTO

"NON FARSI SOPRAFFARE DALL’ATLANTISMO NATO DI LORSIGNORI"

[2.3.22]

 

L’altro ieri è sceso in campo in favore dell’Atlantismo Nato il massimo portavoce nella carta stampata dell’establishment italiano: Paolo Mieli. Erige, sul “Corriere della sera”, a suo eroe il segretario del Pd Enrico Letta. L’esponente dem, infatti, in un'intervista su “La Stampa" di venerdì scorso, aveva rigettato, sbagliando, la tesi che la Nato allargandosi a est dopo la dissoluzione dell’Urss aveva contribuito a risvegliare il nazionalismo grande russo di Putin, fornendo all’autocrate russo qualche pretesto per coprire la sua aspirazione a rifare la Grande Russia. “Quello che è successo – ha detto Letta - dimostra che la Nato doveva fare entrare l'Ucraina prima” aggiungendo “Abbiamo integrato l'Europa centro orientale, Budapest, Vilnius, Varsavia, non possiamo tornare indietro”. Dando così ragione ai pretesti di Putin.

Mieli aveva già spiegato a modo suo gli antecedenti che avevano portato alla marcia della Nato verso est inglobando ben quindici repubbliche sovietiche dal ’99 in poi senza che Putin, osserva, battesse ciglio. Io, per la verità, ne ho contato 14 di cui alcune non facenti parte del vecchio Patto di Varsavia e alcune, come gli Stati baltici, parte integrante dell’Urss. Ma questi per Mieli sono “dettagli” che, però, non dovrebbero sfuggire a un giornalista sedicente osservatore e storico obiettivo. Imbarazzante, per non dire esilarante, la negazione dell’impegno occidentale preso con Gorbaciov, “fantomatico” dice, a non far avanzare la Nato oltre l’Oder, dopo la pubblicazione qualche giorno fa di un documento in tal senso da parte del tedesco “Der Spiegel”.

Secondo Mieli “i fatti di questi giorni dimostrano che la Nato è un presidio della democrazia in Europa”. Di conseguenza ha, per citare un libro di Gassman, “un grande avvenire dietro le spalle”. Cioè, non è stata parte del problema ma ne è la soluzione. Non turba minimamente l’animo di Mieli che di questo “presidio” facciano parte il turco Erdogan, il polacco Morawiecki, l’ungherese Orbàn ecc. i quali, com’è noto, sono nei loro paesi campioni di libertà. Insomma, Nato e Atlantismo forever. Che la vicenda ucraina sia avvenuta, tra i tanti errori e sottovalutazioni occidentali, anche per un deficit politico e anche di autonomia militare dell’Unione europea e che è su questo che bisognerebbe applicarsi per eliminarlo con animo democratico dicendo anche ai paesi dell’est che non si sta nell’Unione se si è proclivi alle “democrature” illiberali e al nazionalismo revanchista, al columnist principe del “Corrierone” non passa neanche per l’anticamera del cervello.

L’articolo di Mieli è significativo, fa capire, infatti, che nell’opposizione e nella mobilitazione più intransigente contro l’aggressione putiniana, i democratici e i pacifisti debbono puntare su un salto democratico, federalista e militarmente autonomo dell’Europa per non farsi sopraffare dall’Atlantismo Nato di lorsignori.

Bisogna far capire a Mieli e all’establishment atlantista italiano che “l'intera comunità progressista italiana”, come lui la chiama, che in questi giorni è scesa in piazza contro Putin, su invito di sindacati, associazioni pacifiste e dell’Anpi, - che non per niente sta tanto in uggia al nostro “columnist” con la mimetica - non l’ha fatto per la Nato, l’ha fatto per la pace e la libertà, contro l’aggressione e la sopraffazione eruttate dal nazionalismo sciovinista e revanchista putiniano. Quello stesso che è in seno ad alcuni aderenti alla Nato.

Alla fine Mieli invita il povero Letta, non senza giustificata ironia, a “proporsi come segretario generale della Nato (ne ha i titoli). Avrebbe il vantaggio di lasciarsi alle spalle le baruffe del ‘campo largo’ “.

Lui potrebbe fargli da capo staff con l’elmetto a tutti gli effetti.

 

 

 

UCRAINA: TOCCA ALL’EUROPA NON ALLA NATO

SIA UE AD ASSUMERE UN RUOLO E UN PROFILO POLITICO AUTONOMO, DEMOCRATICO E PACIFICO VERSO L’EST

4 Marzo 2022

 

L’altro ieri all’Assemblea generale dell’Onu l’aggressione all’Ucraina da parte di Putin è stata condannata da quasi tutti i paesi: 141 voti a favore, 5, tra cui la Russia, contrari, e 35 astenuti tra cui - significativamente per gli sviluppi diplomatici che nei prossimi giorni mettano fine alla guerra - la Cina. Come si sa il voto non è vincolante ma ha un indubbio peso politico nel progressivo isolamento politico su scala mondiale di Putin. Non sembra comunque che l’Onu, visto il potere di veto della Russia nel Consiglio di sicurezza, possa andare oltre il voto di ieri come invece sarebbe auspicabile.

In questa settimana di guerra c’è stata anche una reazione significativa dell’Europa: sanzioni economiche a quanto pare non indifferenti, assistenza ai profughi e alle vittime, invio di armi ai resistenti ucraini sia da parte della Commissione europea che dei singoli Stati europei, voto dell’europarlamento sull’entrata dell’Ucraina nell'Ue. Anche questo un atto con scarsa rilevanza pratica nell’immediato ma indubbiamente di notevole valore politico. Occorre sottolineare, poi, che i paesi più coinvolti nell’assistenza umanitaria, in primis la Polonia, non sono esenti da una pesante punta di razzismo se si considerano le loro arcigne chiusure verso l’emigrazione di altra natura e di altra provenienza ancora persistenti.

Che dopo l’aggressione di Putin ci sarebbe stata una reazione europea e mondiale così forte ed estesa, e anche all’interno della Russia con molte manifestazioni di cittadini, forse l’autocrate russo non se l’aspettava. Perfino la piccola e neutralissima Svizzera ha fatto sentire la sua voce di condanna. Così come, forse, non si aspettava una resistenza tanto intensa da parte degli ucraini sul terreno. Tutto ciò può avere un’influenza sui colloqui in corso far russi ed ucraini per almeno un cessate il fuoco.

Ma l’Europa non può limitarsi solo a reagire, deve promuovere da subito un’iniziativa politica e diplomatica che costringa l’aggressore a una trattativa seria e immediata. Ho Chi Minh, il leader vietnamita che combatté per l’indipendenza del suo paese contro i colonialisti francesi prima e poi gli americani, diceva: quando sei in una capanna con dentro una tigre, da una parte imbraccia il fucile e dall’altra tieni aperta la porta. In questo caso la tigre è l’autocrate russo che è padrone di un arsenale atomico non indifferente. L’iniziativa la deve prendere l’Europa e non la Nato, anche se il ministro russo Lavrov, e non a caso, è quest’ultima che invita ad aprire trattative.

Bisogna vedere in concreto quali siano i veri obiettivi di Putin. Se, come dice, si è mosso per evitare un ulteriore allargamento della Nato a est e in Ucraina - cosa poco credibile perché questa garanzia l’aveva già ottenuta di fatto - oppure se il suo obiettivo, come sembra dimostrare l’aggressione in atto, sia un altro: un passo ulteriore dettato dal nazionalismo revanchista verso la ricostruzione della Grande Russia.

Nel primo caso deve essere l’Unione europea a dare garanzie, assumendo un ruolo e un profilo politico autonomo, democratico e pacifico verso l’est dopo il momento della fermezza e della condanna. Sarebbe, tra l’altro, un primo passo verso la realizzazione di quel soggetto politico europeo che finora è mancato perché ci si è cullati all’ombra dell’Atlantismo Nato che ha contribuito negli anni, con la sua espansione sconsiderata, al rinascente nazionalismo grande russo. Se, com’è probabile, è la ricostruzione della Grande Russia l’obiettivo di Putin, l’iniziativa europea sarebbe salutare e necessaria lo stesso per costringerlo a cadere da cavallo concedendogli di dire che ne voleva scendere: la famosa porta aperta nella capanna di Ho Chi Minh.

Più di qualcuno ha proposto che sia la Merkel, in rappresentanza dell’Ue, ad assumere questo ruolo e questa iniziativa in ragione anche della sua opera passata di continua mediazione nei confronti di Putin nonché della sua conoscenza dell’autocrate russo e degli equilibri interni al gruppo dirigente politico ed economico che lo attornia e che la guerra sta scuotendo. Ciò che finora non è riuscito a Macron e Sholz, forse potrebbe riuscire alla Merkel. Se questo accadesse, com’è auspicabile, lo si dovrebbe oltre che alla sua abilità mediatrice, soprattutto all’inizio di un’autonomizzazione dell’Europa dall’Atlantismo Nato. Evidenziata da una precisa iniziativa e proposta politica volta, da una parte, a salvaguardare l’integrità dell’Ucraina e il suo diritto a scegliersi i governanti che vuole in piena osservanza dello Stato di diritto e dei diritti delle minoranze, dall’altra, a dare garanzie alla Russia in ordine alla sua sicurezza.

 

 

 

BISOGNA ESSERE LUCIDI

ZELENSKY DEVE SOLLECITARE CHE L’EUROPA

SIA FORZA CHE VUOLE IL CESSATE IL FUOCO

[6.3.22]

 

 

Il Presidente dell’Ucraina Zelensky fronteggia la brutale aggressione di Putin. Non è un compito facile ed è perciò comprensibile che non sia sempre lucido nel valutare la situazione drammatica in cui si trova lui e con lui la popolazione ucraina. Chiedere, come ha fatto, che la Nato entri nel conflitto in atto assicurando il cielo ucraino come “no fly zone” significa, né più e né meno, imboccare la strada della terza guerra mondiale. Lo scontro, infatti, diventerebbe subito fra Nato e Russia con il rischio altissimo di diventare immediatamente nucleare. Le conseguenze per il mondo intero, per l’Europa, per la Russia e per l’Ucraina stessa sarebbero quelle dell’olocausto atomico. Perciò ha fatto bene il segretario generale della Nato, il norvegese laburista Jan Stoltenberg, a rifiutare questa richiesta.

In questo momento Zelensky deve sollecitare, invece, non solo aiuti materiali e morali dall’Europa, ma soprattutto deve reclamare che essa entri in campo come forza che propone il cessate il fuoco e una soluzione politica e pacifica nei confronti della Russia. Perché è questo che manca al momento. Il confronto militare sul terreno lo debbono sostenere gli ucraini sostenuti dalla fattiva e multiforme solidarietà internazionale mirante a isolare e bloccare Putin e a provocare un crescente dissenso interno alla Russia.

Altra strada non c’è.

Anche se l’autocrate russo dovesse prevalere a breve sul terreno militare, l’Ucraina rimarrà una ferita aperta per i russi che continuerà a sanguinare provocando loro un crescente isolamento politico ed economico. Negli anni precedenti è accaduto agli americani in varie occasioni anche se diverse tra loro: Vietnam, Afghanistan e Irak.

Sempre che, ovviamente, la Comunità europea e internazionale sia disposta, da una parte, a non accettare l’eventuale fatto compiuto e, dall’altra, a continuare a offrire a Putin una via d’uscita politica basata, per l’essenziale, sul rispetto dei confini dell’Ucraina e della sua sovranità, nel rispetto dei diritti delle minoranze russofone nel Donbass, in cambio della sua neutralità.

L’altra cosa da cui sgomberare rapidamente il campo è che quella che in Ucraina sia in atto una guerra ideologica tra democrazia e autocrazia o dittatura o democratura che dir si voglia. Non perché Putin non sia un autocrate poco raccomandabile e Zelensky un Presidente eletto democraticamente con qualche problema nazionalistico, per usare un eufemismo, anche lui, ma perché in ballo c’è un principio superiore: il rispetto della sovranità e dell’indipendenza di ogni paese, indipendentemente dal suo regime interno, e il ripudio della guerra “come mezzo per la risoluzione delle controversie internazionali” come dice la nostra Costituzione.

Questa volta la particolare pericolosità della situazione è data dal fatto che l’aggressione avviene nel cuore dell’Europa. In ballo non c’è solo l’armamento nucleare ma c’è, come si è visto l’altro ieri, anche il nucleare delle centrali che producono energia.

La Nato ha già combinato parecchi danni nel risvegliare il nazionalismo grande russo di Putin. È bene che rimanga ferma dov’è.

 

 

L’aggressione di Putin all’Ucraina

Energia pulita: il futuro è nella fusione nucleare

[8.3.22]

 

Non fare sempre i conti della serva nel guardare ai provvedimenti ambientalisti

ha riportato bruscamente in primo piano, tra le altre cose, la questione energetica. Ancor prima essa era resa drammatica dai cambiamenti climatici e ultimamente dall’impennarsi del prezzo del gas e del petrolio. All’ultimo G20 i grandi del mondo – anche se con diverse contraddizioni e remore – avevano deciso di ridurre l’incremento del riscaldamento terrestre a 1,5 gradi. In Europa si sta puntando sulle energie rinnovabili per emanciparsi da quelle fossili (carbone, petrolio, gas). Tutto avviene tra contraddizioni, remore e “finte” ambientaliste bollate da Greta Thunberg come “blà, blà, blà” che non è qui il caso di esaminare in dettaglio ma che bisogna tenere sempre presente.

Circa un mese fa, nell’impianto europeo Jet (Joint European Torus), il più grande e potente tokamak in funzione al mondo situato a Culham, nel Regno Unito, alle porte di Oxford, gli scienziati, tra cui alcuni italiani coordinati dall’Enea, hanno ottenuto con la fusione nucleare 59 Mj di energia per cinque secondi. Lo stesso impianto nel 1997 ne aveva prodotto 27 per quattro secondi. La Presidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche (Cnr), Maria Chiara Carrozza, ha commentato: “I risultati che oggi vengono annunciati attestano il raggiungimento di un obiettivo estremamente importante”, perché confermano che “è possibile ottenere elettricità da fusione”. Si tratta, ha osservato, di “un passo cruciale verso la produzione in futuro di energia abbondante ed eco-sostenibile”. Tony Donné, direttore responsabile del programma europeo sulla fusione nucleare Eurofusion, ha entusiasticamente commentato il risultato: “Se possiamo mantenere la fusione per cinque secondi, possiamo farlo per cinque minuti e poi per cinque ore nelle macchine future”.

L’energia da fusione nucleare sarebbe indiscutibilmente vantaggiosa: inesauribile, sicura e in grado di emancipare le nazioni da quelle che possiedono i giacimenti energetici fossili disinnescando molti motivi di guerre e conflitti. Infine, ultimo ma non per ultimo, risolverebbe il problema dell’energia pulita che tanto angustia l’umanità posta di fronte al dramma dei cambiamenti climatici. Non a caso tutte le grandi e medie potenze, dalla Cina agli Usa, dalla Russia all’Europa - che come potenza politica tanto grande al momento non è - dall’India al Giappone alla Corea, sono in corsa per produrla. Negli Stati Uniti anche i privati stanno concorrendo. Gli ostacoli sono grandissimi e derivano principalmente dall’enormità degli investimenti necessari per la ricerca e per realizzare impianti complessi in grado di soddisfare la domanda energetica e di rimpiazzare le energie fossili inquinanti: petrolio, carbone, gas, nucleare (scorie radioattive). L’altro problema è che gli esperti prevedono che l’energia da fusione nucleare sarà pronta nel 2050. Per quell’epoca, come già accennato, il riscaldamento globale dovrà essere contenuto entro la crescita di 1,5 gradi. Per ora si può puntare solo sulle energie rinnovabili: vento, sole, biomasse.

Dopo l’aggressione di Putin all’Ucraina, con tutto quel che ne è seguito e seguirà, l’Europa e l’Italia stanno cercando affannosamente di emanciparsi dal gas russo per evidenti ragioni strategiche.

Può succedere, tuttavia, che sotto la spinta a ricercare energia pulita proveniente anche dagli avvenimenti geopolitici (aggressione di Putin all’Ucraina), la sperimentazione e la messa in produzione dell’energia prodotta dalla fusione nucleare possano essere accelerate come è successo per i vaccini contro il Covid 19. Ex malo bonum direbbero i latini o, come dice il proverbio popolare, “la necessità aguzza l’ingegno”. Almeno c’è da augurarselo.

Il vecchio Marx scriveva in “Per la critica dell’economia”: “L'umanità non si propone se non quei problemi che può risolvere, perché, a considerare le cose dappresso, si trova sempre che il problema sorge solo quando le condizioni materiali della sua soluzione esistono già o almeno sono in formazione”. E una di queste condizioni è la scienza. Nella storia il ruolo della ricerca scientifica e delle scoperte tecnologiche ai fini della produzione economica, e non solo, è stato sempre di primo piano e, quindi, ha inciso profondamente nello svolgimento della vita umana. Non sempre i pensatori di scuola marxista vi hanno prestato sufficiente attenzione, ostacolati da una visione a volte dottrinaria della lotta di classe che li ha allontanati dal più fecondo e complessivo pensiero inerente al marxistico materialismo storico e storicista.

L’esperimento di Culham potrebbe avere la stessa epocale importanza degli esperimenti di fissione nucleare operati negli anni ’30 del secolo scorso. Tra cui quello italiano del 1934 dei “ragazzi di via Panisperna” (Fermi, Pontecorvo, Amaldi, Segrè, Majorana ecc.). Purtroppo l’uso del nucleare iniziò con la bomba atomica americana che distrusse Hiroshima e Nagasaki e in seguito fu prevalentemente guerresco – “equilibrio del terrore” fondato sulla deterrenza atomica - con la minaccia nucleare che sovrasta ancora l’umanità, come si evince dai drammatici avvenimenti ucraini. L’uso pacifico dell’atomo per produrre energia si è dimostrato vieppiù problematico e non privo di controindicazioni.

Certo la scienza, come si sa, non è neutra. Dipende dall’uso che se ne fa e che entra nelle contese economiche e geopolitiche fra le nazioni e le grandi potenze planetarie. Contro scoperte scientifiche che potrebbero emancipare l’umanità da tanti condizionamenti e da tanti mali, si ergono gli interessi di chi, come nel caso dell’energia prodotta dalla fusione nucleare, se ne potrebbe sentire colpito o solo svantaggiato. Ma l’interesse prevalente anche in campo capitalistico dovrebbe spingere in senso positivo, sempre che la produzione di energia da fusione nucleare risulti essere a buon mercato rispetto alle fonti fossili. Questo è un problema che riguarda anche le energie da fonti rinnovabili. Molti economisti e i portavoce di lorsignori, di una parte almeno di lorsignori, esprimono dubbi, scetticismo e contrarietà a ogni piè sospinto. La cultura antiprogressista della destra più retrograda fa sentire la sua scettica ostilità anche nel campo ecologico e ambientale dedita com’è a fare sempre i conti della serva e a guardare ai provvedimenti ambientalisti come costi inutili ed esorbitanti. Da costoro solo quelli del nucleare sono magnificati.

Dimenticano che nel calcolo economico va annoverato anche quello ambientale. E da questo punto di vista c’è sicuramente una convenienza. Quella della vita umana e della sua sopravvivenza.

 

 

 

SEMPRE CHE SI ESCA VIVI

DALLA GUERRA AVVIATA DA PUTIN IN UCRAINA.

STORIA. GLI AIUTI MILITARI AL VIETNAM C’ERANO

13 Marzo 2022

 

La storia, se la si invoca è meglio ricordarla tutta e integralmente.

Il vicedirettore de “il manifesto” Tommaso Di Francesco è contro l’invio di armi ai resistenti ucraini, non perché non condanni nettamente l’aggressione di Putin ma perché ritiene che la cosa possa aggravare la guerra in corso e indebolire la necessità urgentissima di concentrarsi - soprattutto l’Unione europea - per arrivare a un cessate il fuoco e a una soluzione politica della crisi in atto. Bisogna evitare uno scontro fra Nato e Russia che sarebbe l’inizio della terza guerra mondiale a valenza termonucleare.

Per sostenere questa sua tesi in un articolo pubblicato oggi sul “quotidiano comunista” fa diversi riferimenti a situazioni di oggi in giro per il mondo (palestinesi, curdi, yemeniti) in cui gli americani ma anche l’Europa non mandano armi alle resistenze locali. Moralmente c’è anche di peggio: per esempio i curdi, sono stati riforniti dagli Stati Uniti solo per il tempo necessario per sconfiggere l’Isis, e poi (Trump) li hanno abbandonati. Dove, però, Di Francesco sbaglia, è il riferimento al Vietnam. “Quando i vietnamiti impegnati nelle trattative di pace di Parigi – racconta - passarono per Roma per parlare con il Pci, chiesero di incontrare Aldo Natoli che nel frattempo era stato radiato con il gruppo del Manifesto. L’incontro ci fu e a conclusione ricordo le parole di Aldo: i vietnamiti non vogliono armi, né combattenti, vogliono che intensifichiamo le manifestazioni per la pace perché la guerra deve finire altrimenti non fanno più la loro rivoluzione”.

È sempre difficile quando ci s'inerpica sui tornanti scoscesi della storia fare confronti fra situazione diverse e nella loro diversità di secolo e d’epoca storica, anche radicale. Tuttavia bisogna sforzarsi di non spacciare stupidaggini. I vietnamiti chiedevano ai loro sostenitori nelle opinioni pubbliche occidentali – tra cui ebbe un peso non secondario l’ “altra America” - di intensificare le manifestazioni e le iniziative per la pace e fermare l’aggressione – non solo alle opinioni pubbliche ma anche ai governi –, perché le armi per contrastare gli americani in cielo (l’escalation dei bombardamenti) e sul terreno, a loro particolarmente conosciuto e favorevole (la jungla), c’era chi gliele forniva adeguatamente e in abbondanza: l’Urss e la Cina e i paesi del blocco socialista.

Rammento come all’inizio dei bombardamenti sistematici statunitensi sul nord-Vietnam, c’era pressante fra i comunisti italiani la domanda del perché l’Urss non mandava ai vietnamiti i suoi Mig. Una volta nella mia sezione del Pci venne Giuliano Pajetta a spiegare che non era facile addestrare d’emblée un vietnamita che si nutriva con un pugno di riso a fare il pilota di un jet. E ricordo altrettanto bene come il segretario nazionale comunista Luigi Longo che di volontari internazionalisti se n’intendeva (commissario delle Brigate internazionali in Spagna), avesse più volte manifestato la volontà del Pci di mandare volontari se i vietnamiti li avessero richiesti. Cosa che questi ultimi si guardarono bene dal fare perché i volenterosi sarebbero stati più d’ingombro che d’aiuto. Sul tema il regista Citto Maselli nel 1970 ci fece pure un film con un finale un po’ comico: “Lettera a un giornale della sera”.

La guerra contro l’aggressione americana, i vietnamiti la condussero superbamente. Avevano due assi nella manica di prima grandezza: Ho Chi Minh e il generale Giap. Le operazioni militari le subordinarono sempre agli obiettivi politici della pace e dell’indipendenza. Anche la famosa offensiva del Têt nel gennaio del ’68 condotta dai vietcong del Fln ebbe lo scopo di obbligare gli Usa a sospendere i bombardamenti sul Nord Vietnam e ad acconciarsi al tavolo delle trattative e che si aprirono, come ricorda Di Francesco, a Parigi 13 maggio del 1968. E non vado oltre per non addentrarmi nei successivi sviluppi di una lotta che ha fatto epoca.

Questo per la storia. Che se proprio non la si vuol far riposare, come dice Cuperlo in malcelata polemica con la sua collega Pinotti, è meglio ricordarla tutta e integralmente.

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INTEGRALISMO OPPIO DEI POPOLI

TRATTARE PER ARRIVARE A UN COMPROMESSO ACCETTABILE

CHE SALVAGUARDI I DIRITTI DI TUTTI

16 Marzo 2022


Bisogna rifuggire da chi nelle guerre chiama in causa gli scontri di civiltà, fra democrazia e dittature o fra dittature e libertà. Di costoro in giro ce ne sono molti. Non perché le guerre non abbiano in sé, talvolta in nuce, anche questi elementi – la seconda guerra mondiale l’ebbe quant’altri mai - ma perché le suddette impostazioni nel mondo di oggi tendono quasi sempre a oscurare e sopprimere beni più alti che sono quelli dell’indipendenza e della sovranità delle nazioni e del diritto dei popoli alla pace. Se ci si mettesse, come pure hanno fatto negli ultimi decenni soprattutto gli americani, a fare le guerre con i pretesti della difesa o “esportazione della democrazia” e dei “valori occidentali”, la guerra sarebbe permanente, contro una parte maggioritaria del globo terracqueo cui la democrazia occidentale è estranea per storia e per cultura.

Ricordiamoci dei fatti della storia.

L’aggressione fascista all’Etiopia nel ’35 era a uno Stato dominato da una monarchia semifeudale e ad aggredirlo era l’Italia che stava, anche con un certo consenso, beatamente sotto il tallone della dittatura di Mussolini. L’Etiopia del Negus Hailé Selassié aveva ragione e l’Italia fascista torto marcio.

La seconda guerra mondiale iniziò con l’aggressione nazista alla Polonia che non era proprio un esempio di democrazia, di libertà e di liberalismo. Era la Polonia figlia della dittatura militare di Pilsudski e che l’anno prima a Monaco aveva avuto la sua libra di carne in Cecoslovacchia e che si era opposta al passaggio delle truppe sovietiche che volevano soccorrere la democrazia ceca. Tuttavia quella guerra che iniziò lì aveva in sé il germe della libertà, della voglia di democrazia antifascista reso evidente e crescente mano a mano che il conflitto divenne effettivamente mondiale. Quel germe si dispiegò poi negli anni seguenti in Europa e per il mondo superando anche gli anni più gelidi della guerra fredda. A combattere il male assoluto del nazifascismo non furono gigli di campo. La Gran Bretagna era una democrazia imperiale e colonialista anche la Francia lo era. Gli Stati Uniti di Roosevelt erano una democrazia segnata dalla discriminazione razziale, l’Urss di Stalin, avvolta nel mito liberatorio della Rivoluzione d’Ottobre, era uno stato socialista dal volto non proprio umano caratterizzato da una spietata dittatura e dalla polizia segreta. Tuttavia solo ai ribaltatori della verità storica, purtroppo diffusisi fin nell’europarlamento, viene in mente di equiparare il comunismo staliniano con il male assoluto del nazifascismo.

In Vietnam gli Stati Uniti condussero una guerra d’aggressione senza esclusioni di colpi e di mezzi, durata anni. Eppure erano una democrazia, imperialista certo, ma una democrazia per quanto imperfetta e piena di contraddizioni laceranti ancora perduranti. Quel conflitto lo persero perché le ragioni del diritto all’indipendenza nazionale, indipendentemente dal regime interno, stava dalla parte dei vietnamiti. Lo persero perché il mondo anche quello occidentale alla fine li isolò e lo persero, infine, anche perché salì all’interno della società statunitense – insieme al movimento contro la discriminazione razziale – la rivolta democratica dell’ “Altra America”.

In Irak gli Usa e i loro alleati “volenterosi”, spagnoli e inglesi, condussero nel 2003 una guerra d’aggressione contro Saddam Hussein. Era un dittatore spietato ma quella guerra era ingiustificata. Tanto è vero che non ebbe la copertura dell’Onu grazie al veto di Francia e Russia, nonostante che l’impresa fosse presentata con gli abiti ideologici dell’ “esportazione della democrazia” e, per alcuni, addirittura dello scontro di civiltà. Per non parlare delle pietose bugie sulle armi di distruzione di massa in mano al rais sunnita che le fecero da pretesto. Ingiustificata come quella in Afghanistan, prima dell’Urss e poi degli americani tramite la Nato, nonostante l’attacco all’America dell’11 settembre.

In Palestina, il diritto sacrosanto dei palestinesi all’indipendenza è negato da Israele. Israele è uno stato democratico e i palestinesi sono rappresentati principalmente dall’Olp. Nessuno dei numerosi soggetti che ne fanno parte (Al Fatah, Hamas ecc.) è da considerarsi democratico come noi intendiamo questo termine, non di meno i palestinesi come popolo che resiste da decenni a un’aggressione e a un’occupazione straniera hanno ragione da vendere, indipendentemente da chi si fanno rappresentare e dagli errori che nella lotta possono aver compiuto i soggetti che li rappresentano; spesso in lotta feroce tra loro e condizionati dalle intromissioni degli stati arabi o islamici “fratelli”.

Gli esempi potrebbero continuare. La storia ne è piena. Ognuno di questi, ovviamente, va compreso nella sua originalità di tempo, di spazio, di luogo.

Anche l’Ucraina di oggi che resiste all’aggressione di Putin ha diritto alla solidarietà e all’aiuto di tutti. Indipendentemente dal suo regime interno di democrazia non privo di ombre, con fenomeni di corruzione e di nazionalismo destrorso che possono non piacere ma che la resistenza all’aggressore potrebbe far cambiare in meglio. Così come bisogna trattare con Putin per arrivare a un compromesso accettabile che salvaguardi il diritto di tutti alla sicurezza e all’indipendenza e alla pace minacciata dalle armi nucleari in ballo. Nonostante quello dell’autocrate russo sia un regime interno illiberale, non democratico, retrogrado e oscurantista.

Piaccia o non piaccia.

 

 

SERVE UNA NUOVA CONFERENZA SULLA SICUREZZA EUROPEA

CHE DOVREBBE ESSERE UN MODELLO ANCHE PER IL RESTO DEL MONDO

18 Marzo 2022

 

L’obiettivo principale e urgente del momento è quello del cessate il fuoco in Ucraina e di trattative di pace risolutive del conflitto in corso. Una guerra scatenata dall’aggressione di Putin e non giustificata dagli errori pur gravi e miopi precedenti compiuti dagli occidentali americani ed europei: espansione della Nato a est che ha stimolato il risveglio del nazionalismo grande russo.

Appare sempre più evidente, però, che la soluzione della guerra ucraina non possa prescindere da un accordo complessivo sulla sicurezza in Europa che, finalmente, metta ordine e fine al periodo seguito all’implosione dell’Urss e all’avanzata a est della Nato.

"Nel 1975 ci fu  a Helsinki la Conferenza sulla sicurezza in Europa che fece il punto sullo stato del nostro continente, riconoscendo i confini e gli stati (Rep. Federale di Germania e Repubblica federale Tedesca) scaturiti dalla seconda guerra mondiale".

Quella Conferenza era stata sostanzialmente preparata dall'Ostpolitik del socialdemocratico Willi Brandt. All’evento parteciparono tutti gli Stati europei di allora, meno l’Albania e Andorra, più gli Usa e il Canada. Si svolse, inoltre, fra luglio e agosto un paio di mesi dopo il tracollo americano in Vietnam. I princìpi concordati furono: 1) Eguaglianza sovrana, rispetto dei diritti inerenti alla sovranità; 2) Non ricorso alla minaccia o all'uso della forza; 3) Inviolabilità delle frontiere; 4) Integrità territoriale degli stati; 5) Risoluzione pacifica delle controversie; 6) Non intervento negli affari interni; 7) Rispetto dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, inclusa la libertà di pensiero, coscienza, religione o credo; 8) Eguaglianza dei diritti ed autodeterminazione dei popoli; 9) Cooperazione fra gli stati; 10) Adempimento in buona fede degli obblighi di diritto internazionale.

Allora, qualche commentatore osservò che l’Urss di Breznev cercava la sicurezza mentre gli Stati Uniti pensavano ai diritti umani come elemento scardinante del Patto di Varsavia. Tuttavia, tra non pochi scossoni, dentro il Continente (l’avvento di Solidarnosc in Polonia, piazzamento dei missili SS 20 sovietici e risposta con i Cruise e i Pershing della Nato) e fuori (rivoluzione sciita in Iran, intervento sovietico in Afghanistan e in Africa, continuazione del conflitto israelo-palestinese, avvento della Thatcher in GB e di Reagan in Usa) quell’assetto resistette fino all’implosione dell’Urss. Poi, cominciò un'altra storia a est, nei territori del “socialismo realizzato” e nel mondo.

La guerra in Ucraina rende evidente la necessità di una nuova Conferenza sulla sicurezza europea che prenda atto della situazione cambiata nell’ultimo trentennio. È una consapevolezza proveniente da più parti.

Quali potrebbero essere i princìpi e i beni che tali assise dovrebbe assicurare agli europei? La sicurezza per tutti gli Stati basata sul diritto alla sovranità e all’indipendenza di ciascuno, indipendentemente dal proprio regime interno.

I partecipanti potrebbero essere più o meno gli stessi sotto il patrocinio dell’Onu.

Si dice che la guerra scatenata da Putin abbia effetti non solo europei ma mondiali. La nuova Conferenza europea dovrebbe essere - quando e se andrà in porto assicurando i beni di cui sopra che sono inseparabili dalla pace - un modello anche per la sistemazione dei conflitti aperti nel resto del mondo: sia quelli di guerra guerreggiata sia quelli che lo potrebbero divenire.

L’Unione europea dovrebbe essere in prima linea nel postulare la necessità di una nuova Conferenza europea sulla sicurezza. Se si limita solo all’inasprimento delle sanzioni, non solo economiche, all’invio di aiuti militari ai resistenti ucraini e alla doverosa assistenza ai profughi – com'è stato ribadito nel vertice di Bruxelles di venerdì scorso - non si va lontano.

Soprattutto non si va verso una pace duratura.

 

 

 

L’USO STRUMENTALE PRO NATO DI BERLINGUER

QUELLO CHE DAVVERO DISSE BERLINGUER SULLA NATO

19 Marzo 2022


A contornare inevitabilmente la guerra in Ucraina ci sono ogni giorno in Tv sui social e su giornali e riviste, commenti, analisi, polemiche, baruffe. In questo mare magnum non è facile separare il grano dall’oglio. Alcuni commentatori, indossanti di solito l’elmetto atlantico, idolatri della Nato forever, usano riportare strumentalmente le affermazioni che su quell’alleanza politica, militarmente incarnata dalla Nato, fece Berlinguer in una famosa intervista a Giampaolo Pansa più di cinquant’anni fa alla vigilia delle elezioni politiche del 1976. Ecco che cosa disse esattamente il segretario del Pci.

“Io penso che, non appartenendo l’Italia al Patto di Varsavia, da questo punto di vista c’è l’assoluta certezza che possiamo procedere lungo la via italiana al socialismo senza alcun condizionamento. Ma questo non vuol dire che nel blocco occidentale non esistano problemi: tanto è vero che noi ci vediamo costretti a rivendicare all’interno del Patto Atlantico, patto che pur non mettiamo in discussione, il diritto dell’Italia di decidere in modo autonomo del proprio destino”. “Io voglio che l’Italia non esca dal Patto Atlantico ‘anche’ per questo, e non solo perché la nostra uscita sconvolgerebbe l’equilibrio internazionale. Mi sento più sicuro stando di qua, ma vedo che anche di qua ci sono seri tentativi per limitare la nostra autonomia”. “Sì, certo, il sistema occidentale offre meno vincoli. Però stia attento. Di là, all’Est, forse vorrebbero che noi costruissimo il socialismo come piace a loro. Ma di qua, all’Ovest, alcuni non vorrebbero neppure lasciarci cominciare a farlo, anche nella libertà. Riconosco che da parte nostra c’è un certo azzardo a perseguire una via che non piace né di qua né di là”.

C’è un modo assai semplice e molto in voga di stravolgere il pensiero e le posizioni politiche di leader di partito o suoi esponenti di rilievo, ed è quello di decontestualizzarle dal contesto storico in cui esse furono pronunciate per trasportarle d’emblée in contesti del tutto diversi.
Le affermazioni di Berlinguer sul Patto Atlantico - il Pci e il Psi, e non solo, furono fieri avversari all’adesione ad esso dell’Italia nel 1949 – avveniva dopo circa un anno dalla Conferenza sulla sicurezza europea di Helsinkj che aveva messo fine a tutte le pendenze rimaste aperte scaturite dalla seconda guerra mondiale incistatesi con la “guerra fredda”. Inoltre, in Europa erano caduti i regimi fascisti in Portogallo (salazarismo) e in Grecia (i colonnelli) che, guarda caso, stava bellamente nella Nato. Quello franchista stava per cadere. La posizione del Pci allora, e saggiamente, non era più l’uscita unilaterale dell’Italia dalla Nato bensì il superamento bilanciato e concordato dei due blocchi politici, ideologici (socialismo realizzato e democrazia occidentale), economici e militari (Patto Atlantico-Nato e Patto di Varsavia) contrapposti. Berlinguer non era un ingenuo, tanto è vero che non si nascondeva le insidie di quel sentiero stretto che i comunisti italiani si proponevano di attraversare per costruire il socialismo nella democrazia e nella libertà: “Riconosco che da parte nostra c’è un certo azzardo a perseguire una via che non piace né di qua né di là”. Che non piacesse lo si scoperse da subito quando contro quel tentativo si scatenò, come disse Natta, il cielo e la terra, a cominciare dal terrorismo e dall’assassinio di Aldo Moro.

Non credo, anzi ne sono certo, che Berlinguer avrebbe apprezzato l’espansione dissennata della Nato a Est dopo l’implosione dell’Urss e del Patto di Varsavia. Sicuramente non l’avrebbe giudicata un “presidio di libertà”. Forse avrebbe visto con favore la creazione di una Difesa comune europea, non, come dice Draghi, “integrativa e rafforzativa della Nato” ma, invece, come suo superamento.


Un'altra cosa di cui sono certo è che non avrebbe giustificato l’aggressione di Putin all’Ucraina né apprezzato quello che oggi è la Russia. Aveva già segnalato a tutti, ai tempi dell’Unione sovietica, che lì si era “esaurita la spinta propulsiva della Rivoluzione d’ottobre”, oggi, forse, avrebbe amaramente constatato che lì ha ripreso quella del nazionalismo retrogrado e oscurantista grande russo.

 

 

 

I RIFERIMENTI IDEALI DI PUTIN

...FORSE DEVE RISALIRE APPROPRIATAMENTE A IVAN IL TERRIBILE

21 Marzo 2022


Putin ha detto più volte di avere come riferimento ideale lo zar Pietro il Grande che, com’è noto, fu nel suo tempo un autocrate riformatore per la Russia. Mise in riga i boiardi, diffuse l’istruzione, riformò la moneta e la burocrazia, modernizzò le forze armate, introdusse la carta bollata nei contratti pubblici e privati, adottò il calendario giuliano, mise la Chiesa ortodossa alle dipendenze dello Stato, fece tagliare le barbe ai preti, agli ufficiali, ai dignitari statali costringendoli a vestirsi all’europea ecc.. Capì che la Russia doveva modernizzarsi per far fronte all’Occidente europeo. Simbolo di questo sforzo di modernizzazione e occidentalizzazione fu la fondazione di San Pietroburgo.

Non sembra che Putin abbia molto a che fare con tutto questo. I suoi continui richiami alla tradizione grande russa, compresa quella oscurantista della Chiesa ortodossa, ma, soprattutto, il suo governo complessivo delle cose russe, mal si accordano con il riferimento a Pietro il Grande.

E’ senz’altro vero che quando l'ex agente del Kgb fu incaricato del potere prese in mano una Russia umiliata, ridotta nei suoi confini di grande potenza, dopo l’implosione dell’Urss e la sbornia, in tutti i sensi, liberal liberista eltsiniana. La prima cosa cui dovette applicarsi è stata la restaurazione dell’autorità dello Stato sui moderni boiardi: gli oligarchi che pur lo avevano portato al potere. Ora li indica al ludibrio del popolo – sono traditori e il popolo russo li “sputerà come moscerini”, ha detto - perché li vede incerti e recalcitranti, non certo per questioni morali, nell’appoggio all’aggressione militare all’Ucraina, ma in tutti questi anni non ha fatto nulla per scardinare il loro potere economico volto solo a far soldi ai danni dei russi. “Non sto affatto giudicando quelli che hanno una villa a Miami o in Costa Azzurra, che non possono fare a meno del foie gras, delle ostriche o delle cosiddette libertà di genere”, dice, senza porsi il problema se quella ricchezza è frutto o meno di uno sfruttamento predatorio delle risorse russe ai danni del popolo, causa della perdurante stagnazione e arretratezza economica del sistema liberista-oligarchico post sovietico.

Nella storia complessa della Russia vi è stato, almeno da Pietro il Grande in poi, un elemento europeo minoritario che ha dovuto confliggere e confrontarsi con l’ “asiatismo”, come lo chiamava Lenin, prevalente nel modo di concepire il rapporto fra cittadini e potere politico e statuale. Il nazionalismo grande russo è frutto in gran parte di questo “asiatismo” per cui i cittadini sono innanzitutto sudditi. Il bolscevismo rivoluzionario e internazionalista di Lenin si pose in antitesi radicale con questa tradizione oscurantista e arcaica.

Non a caso all’inizio della guerra d’aggressione all’Ucraina, Putin disse che quella nazione era stata un’invenzione di Lenin verso cui nutre un risentimento notevole. «Dobbiamo notare – ha osservato Qin Hui, già docente di storia all’Università Tsinghua di Pechino (“il manifesto” 20.3.2022) - che mentre Putin condanna Lenin e i bolscevichi, non dice una parola sull’oppressione dei gruppi etnici o sull’espansione imperiale da parte della Russia zarista e, tra le righe, esprime chiaramente il suo desiderio per l’eredità della Russia imperiale e il suo risentimento per i bolscevichi per averlo distrutto”. Putin è sempre stato, invece, più benevolo con Stalin ricomprendendolo nella tradizione storica della Grande madre Russia, se non altro perché vincitore della Grande guerra patriottica contro il nazifascismo, modernizzatore della Russia con i piani quinquennali d'industrializzazione accelerata e artefice della Russia potenza mondiale. Appare innegabile che la vicenda storica del comunismo in Russia ebbe con Stalin una torsione insieme modernizzatrice e patriottico-nazionalista. Con lui l’ “asiatismo”, tanto aborrito da Lenin, tornò ad avvolgere anche il regime sovietico.

Nei suoi “Quaderni del carcere”, riflettendo sulle vicende della Rivoluzione russa d’ottobre e sulle differenza strategiche fra Oriente e Occidente in cui si trovavano a operare i comunisti, Antonio Gramsci contrappone Lenin a Trockij: il primo “profondamente nazionale e profondamente europeo”, mentre il secondo è “un cosmopolita, cioè superficialmente nazionale e superficialmente occidentalista o europeo”. Ed era Trockij; figurarsi cosa avrebbe potuto scrivere del nazionalista Putin.

Sta di fatto che l’“asiatismo” è inseparabile dal nazionalismo grande russo rappresentato da Putin che concepisce la grande madre Russia al centro del continente euroasiatico e l’Europa, con la sua imbelle e femminea “democrazia liberale”, come nemica e ostile.

Non è inutile ripetere che l’espansione dissennata della Nato dopo il tracollo dell’Urss ha rafforzato questo sentimento. Mentre l’Europa ha sottovalutato ciò che rigurgitava dallo stomaco dell’orso russo affidandosi bellamente al suo petrolio e al suo gas.

Putin si sente erede della tradizione zarista che con il comunismo bolscevico - che per Lenin era erede “della somma delle conoscenze che l'umanità ha accumulato sotto il giogo della società capitalistica, della società dei proprietari fondiari e dei burocrati” - non ha nulla a che fare. E neanche con il socialismo europeo.

E manco, per essere precisi, con l’autocrazia zarista di Pietro il Grande. Se proprio vuole darsi degli antenati, forse deve risalire più appropriatamente a Ivan il Terribile.

 

 

 

UN APPUNTAMENTO ATTESO. IL CONGRESSO DELL’ANPI

TUTTE LE GUERRE D’AGGRESSIONE DA CHIUNQUE E OVUNQUE CONDOTTE PEGGIORANO IL MONDO

27 Marzo 2022


Giovedì scorso il Presidente dell’Anpi Pagliarulo ha svolto la sua relazione al Congresso, molto atteso, della più grande Associazione dei partigiani italiani. Il documento mi è parso equilibrato e complessivamente condivisibile. Soprattutto per ciò che riguarda il tema dell’Ucraina e le proposte avanzate riguardo alla risoluzione della guerra d’aggressione di Putin. Con tutti i pericoli, ha spiegato Pagliarulo, che questo conflitto nel cuore dell’Europa comporta (rischio atomico), con tutti i difetti nazionalistici, anche gravi, della democrazia degli aggrediti e con tutti i precedenti, interni ed esterni, che hanno incoraggiato e provocato la guerra anche da parte della Nato.

Nella posizione dell’Anpi non c’è alcuna equidistanza fra aggredito e aggressore, come certi commentatori atlantisti con l’elmetto vanno dicendo sui mass media, c’è preoccupazione per un invio dissennato e senza misura di armi che ci faccia diventare indirettamente “cobelligeranti” e coinvolgerci nel superamento di quella “linea rossa” oltre la quale può scoppiare un conflitto nucleare anche solo per un incidente non voluto.

La perdurante assenza da parte dell’Europa di un’iniziativa e proposta politica di pace nella salvaguardia del diritto alla libertà e all’indipendenza dell’aggredito, continua a mancare drammaticamente. Il vertice Ue dell’altro giorno ne è solare testimonianza. Qui è il punto su cui battere e che deve unificare tutti coloro che si battono per la pace con le più diverse motivazioni e posizioni.

Ho trovato pienamente condivisibile quanto ha detto Pagliarulo su questo tema: “L’ANPI lancia l’idea perciò che l’UE si faccia portatrice di una proposta rivolta a tutti i Paesi europei non UE che a) aggiorni e ribadisca i dieci principi fondamentali degli accordi di Helsinki del 1975 a cominciare dal riconoscimento dell’inviolabilità dei confini nazionali; b) stabilisca un’ampia zona smilitarizzata e denuclearizzata lungo tutta la fascia di confine fra la Russia e gli altri Paesi c) avvii un processo di diminuzione controllata di tutti gli armamenti nucleari in Europa e nel mondo. Per questo l’Unione Europea deve essere rappresentata con una sola voce, con un suo seggio al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e farsi promotrice di una più generale riforma dell’ONU restituendo all’organismo sovranazionale la sua funzione, oggi drammaticamente assente, di mantenere la pace, la sicurezza internazionale e la composizione dei conflitti”.

Così come condivido la riflessione sulla Difesa comune europea. “Si è avviata una discussione – ha detto - su di un sistema di difesa europeo. Occorre che ne siano esplicitati e chiariti gli obiettivi, che dovranno essere mirati alla esclusiva difesa interna del territorio dell’Unione e dei suoi Stati membri ed esternamente solo al mantenimento della pace ed esclusivamente su mandato dell’ONU nella consapevolezza che troppe volte, ormai da più decenni, missioni militari di guerra sono state presentate come interventi a difesa dei diritti umani o di interposizione. Ma va contrastata la tendenza, oggi prevalente, a considerare il futuro sistema di difesa come aggiuntivo alla NATO avviando una riflessione sul suo ruolo. Le ragioni originarie della NATO sono venute meno essendone caduti i presupposti storico-politici col crollo del Muro di Berlino. Nel nuovo mondo multipolare e nella prospettiva di un sistema di difesa europeo è perciò ragionevole una progressiva dismissione delle strutture NATO”.

Ritengo meno convincenti, invece, non le comprensibili perplessità e i dubbi sull’invio di armi ai resistenti ucraini, derivanti da tante considerazioni, alcune già accennate, ma l’esclusione secca di questa necessità, giustificata con argomenti, a mio giudizio, piuttosto deboli. Ma il Presidente sa benissimo che su questo tema estremamente delicato, dentro l’Anpi, “che non è una caserma” come ci ha tenuto a sottolineare, vi sono opinioni diverse a cominciare dal suo Presidente onorario Carlo Smuraglia. Va senz’altro apprezzato il modo pacato e unitario con cui Pagliarulo ha trattato il problema durante queste settimane di pena e di paura.

Nei momenti di guerra è facile a ognuno lasciarsi andare a considerazioni comprensibilmente un po’ retoriche. Ma debbo dire che trovo discutibile la citazione di Pagliarulo di Papa Francesco, che per altro sul tema della guerra ha posizioni condivisibili non da oggi, a cominciare dalla netta condanna dell’aumento della spesa per gli armamenti. “Ogni guerra – ha detto Bergoglio - lascia il mondo peggiore di come lo ha trovato”. La storia dell’umanità, purtroppo, è fatta anche di guerre orribili. I conflitti di tutti i tipi e in ogni tempo hanno scandito, disgraziatamente, la storia del genere umano. Certamente non bisogna rassegnarsi a questa logica perversa. Ma bisogna partire dalla realtà. Non tutte le guerre sono state eguali. In particolar modo non lo sono state e non lo sono quelle in cui un aggredito o popolo oppresso ha risposto ad una aggressore e ha lottato per liberarsi dall’oppressione, dall’occupazione e dal servaggio. La seconda guerra mondiale, vittoriosa sul nazifascismo aggressore spietato e male assoluto, non lasciò il mondo perfetto e non tutte le speranze di pace e giustizia che quella lotta aveva in sé furono realizzate, ma certo quel conflitto spietato lasciò il mondo migliore di prima, grazie al sacrificio di milioni di persone, compresi i partigiani italiani. E non furono peggiorative del mondo tutte le lotte per l’indipendenza e la libertà che vennero dopo anche se non tutte dettero origine a democrazie pluraliste all’occidentale.

Lo peggiorarono parecchio, invece, le guerre d’aggressione da chiunque e ovunque condotte.

Compresa quella in corso in Ucraina.

 

 

 

 

SINISTRA. EVITIAMO SCOMUNICHE

SCOMUNICARE SPINGE FUORI DAL RECINTO DELLA SINISTRA CHI ESPRIME DISSENSO SULL’INVIO DELLE ARMI

28 Marzo 2022

 

Sergio Cofferati ha una lunga storia di sinistra ed è un uomo di sinistra. Sostiene che il sostegno all’Ucraina deve avvenire anche con l’invio di armi ai resistenti. Ieri ha dato un’intervista a “il Corriere della sera” e, sul tema in questione, usa un’espressione che non mi è piaciuta. “Che sinistra è – dice - una sinistra che non è solidale con un popolo aggredito e che non cerca di aiutarlo in tutti i modi?”.

Intendiamoci, le domande dell’intervistatrice Maria Teresa Meli erano piuttosto volte a confondere cose diverse tra loro e, soprattutto, a inchiodare una parte della sinistra - “maggioranza degli iscritti all'Anpi, in una parte del Movimento 5Stelle e nella Cgil” elenca - alla “teoria dell'equidistanza tra Ucraina e Russia”. A tale scopo la giornalista atlantista di lorsignori, mette insieme certi inviti agli ucraini ad arrendersi, propri della destra italiana “guicciardiniana” che pensa solo agli affari suoi - quella stessa destra attesista che durante la Resistenza aveva in uggia la lotta partigiana e aspettava solo che gli Alleati arrivassero al più presto per liberarli più che dal nazifascismo da quei pazzi scriteriati di partigiani che con le loro azioni di guerra mettevano in pericolo la sua tranquillità - mette queste cosacce, dicevamo, insieme al dissenso di una parte della sinistra sull’invio di armi agli ucraini.

Una sinistra che non è affatto equidistante tra aggredito e aggressore (Putin), che sostiene gli aiuti umanitari agli ucraini, anche le sanzioni economiche all’aggressore, ma teme che inviare anche armi in Ucraina seppur agli aggrediti, possa essere pericoloso per tanti motivi, rischioso per l’innalzarsi del conflitto a livelli nucleari e, in definitiva, d’ostacolo a una conclusione rapida del conflitto da affidarsi prevalentemente all’azione diplomatica.

Io sul tema la penso come Cofferati, ma ritengo del tutto sbagliati i toni della scomunica che respinge fuori dal recinto della sinistra chi sull’invio delle armi esprime un dissenso e una contrarietà. E, naturalmente, anche il contrario. Userei anche un’altra accortezza: eviterei interviste a Maria Teresa Meli.

Il problema più importante in questo momento, che Cofferati sembra non cogliere, è che ci si batta tutti per l’apertura di una trattativa di pace, per la fine della guerra e, a tale scopo, per una proposta conseguente da parte dell’Europa che tarda a venire. Sulla quale Europa, Cofferati dice cose giuste nel finale dell’intervista.

Le scomuniche reciproche non servono, anzi sono deleterie. Sono la parte negativa, questa sì retaggio del novecento. di una storia della sinistra storica complessivamente positiva, civilizzatrice del capitalismo selvaggio.

Infine una considerazione storica. Cofferati tira in ballo la Resistenza italiana contro il nazifascismo e gli aiuti in armi che ebbe dagli Alleati. Eviterei paragoni un po’ forzati, ma già che ci siamo bisogna ricordare che la Resistenza non fu solo un movimento armato, fu anche civile e perfino religioso. Molti cattolici che vi parteciparono, nascondendo partigiani, ebrei, antifascisti, renitenti ai bandi nazisti o repubblichini, armi e vettovagliamenti per i combattenti o, se donne, facendo le staffette partigiane come la cattolica Lidia Menapace o gli scout dell’organizzazione “Oscar” dediti a far espatriare in Svizzera ebrei, renitenti alla leva e ricercati politici, lo fecero anche perché non volevano imbracciare armi e uccidere.

Il loro idolo oggi sarebbe stato Papa Francesco.

 

 

 

SPESE MILITARI. IL CORTO RESPIRO DI GUERINI

29 Marzo 2022

 

Papa Francesco si è scagliato contro l’aumento delle spese militari. È stato sferzante. “Io mi sono vergognato – ha detto - quando ho letto che un gruppo di Stati si sono compromessi a spendere il 2% del Pil per l’acquisto di armi come risposta a questo che sta accadendo, pazzi!”. Tra questi Stati, oltre alla Germania che ha impegnato ben 100 miliardi, vi è anche l’Italia. La cosa sta scuotendo le forze politiche e lo stesso governo Draghi.

Ieri, il ministro della Difesa Guerini targato Pd, in una lettera a “La Stampa”, ha provato a contrastare il duro giudizio del Papa, pur senza nominarlo. Il finale del suo scritto suona involontariamente autoironico. Ipotizzando che le contrarietà, dentro e di alcuni partiti, siano dettate da “esigenze politiche o elettorali” - il che non è impossibile ma non è la questione principale - parla malaccortamente “di corto respiro”.

E che cosa c’è di più “corto respiro” del non saper valutare quel che è cambiato strategicamente per l’Europa con la guerra di aggressione di Putin?

Guerini si richiama agli impegni presi in sede Nato nel 2014, sostanzialmente disattesi, per dire che oggi l’Italia li deve onorare, facendo una certa e interessata confusione fra Nato e Difesa comune europea. Parla ambiguamente di “riflessi conseguenti anche nella dimensione di sicurezza e difesa, e le prospettive di revisione del concetto strategico della Nato e del rilancio del progetto di Difesa europea”.

Ma il punto è proprio questo: l’autonomia difensiva dell’Europa non coincide con la Nato.

L’Europa è stata sorpresa dalla guerra di Putin e si è accorta che, sotto il profilo della Difesa militare, spende tra il triplo e il quadruplo della Russia, circa 230 miliardi. Ma ognuno lo fa per conto suo. E l’aumento delle spese militari di oggi da parte dei singoli Stati europei, perpetuerebbe questo stato di cose. Quella che si prospetta, perciò, è una vera e propria corsa al riarmo che aggraverebbe la situazione.

È una strada sbagliata.

L’Italia dovrebbe puntare in sede europea non a onorare gli impegni Nato, ma ad accelerare la razionalizzazione della spesa militare europea mettendo in comune le risorse disponibili. Cioè la costruzione della Difesa europea, la cosiddetta “bussola strategica”, che pure la Ue dice di voler perseguire. Ciò comporterebbe non un aumento ma una diminuzione delle spese militari.

Invocare, come fa Guerini, la continuità degli impegni presi e la nostra “affidabilità” internazionale, senza saper valutare che l’espansione della Nato ad Est è stata parte del problema guerra in Ucraina, e non ne è oggi soluzione. Tutto ciò, per l’appunto, è “di corto respiro”. Cortissimo, quasi asfissiato.

 

 

 

LA GUERRA IN UCRAINA. FALCHI E COLOMBE

Ipotesi di divergenza strategica fra Usa ed Europa sulla guerra ucraina
30 Marzo 2022

 

Quando accadono guerre come quella derivante dall’aggressione di Putin all’Ucraina, sia nell’uno che nell’altro campo è fisiologico che si levino falchi e colombe.

Nel campo russo è difficile conoscere chi sono gli uni e chi gli altri. Il regime è sostanzialmente dittatoriale e poco lascia trapelare di eventuali contrasti e contrarietà nei confronti dell’autocrate russo. Gli analisti si sbizzarriscono a cercare segni di un dissenso ma il più delle volte confondono i loro desideri con la realtà. Le poche cose certe sono: le manifestazioni nelle città russe, la riunione trasmessa in Tv del consiglio di sicurezza russo - in cui è apparso evidente, da un lato, l’imbarazzo dei componenti ridotti a scolaretti e, dall’altro, l’umiliazione cui Putin ha sottoposto il capo dei servizi segreti – e il probabile dissenso degli oligarchi colpiti dalle sanzioni occidentali nei loro affetti più cari quali gli yacht, le ville e i conti bancari.

Quanto al dissenso fra la cittadinanza, esso si è espresso in una parte della popolazione urbana, ma poco si sa della Russia profonda, quella dei villaggi e delle campagne. Anche se occorre considerare che qualche centinaia o migliaia di manifestanti in Russia, che rischiano pene pesanti e anche di più per il diritto al dissenso, equivalgono a diverse decine di migliaia di persone nelle democrazie occidentali. Da quelle parti, tutto è impedito da leggi liberticide che vietano ai russi di sapere come vanno le cose, sottoponendoli a una propaganda di regime assillante e continua. Nei confronti di dissidenti, oppositori, giornalisti e intellettuali, l’autocrate del Cremlino ha già dimostrato di andare per le spicce, non esitando a farli fuori in vari modi. L’avvelenamento pare essere una delle sue specialità, ne sanno qualcosa Navalnij e Litvinenko.

Di certo c’è che la salute politica di Putin è legata al successo dell’andamento della “operazione speciale”. Ma è difficile capire quel che accade nelle alte sfere di Mosca, anche se è da lì che possono nascere al momento movimenti e sommovimenti in grado di contrastare l’autocrate o, più semplicemente, costringerlo a un “onorevole compromesso” con Zelenskj. Cioè, per l’appunto, colombe che riescano a volare sopra i falchi.

Anche in Ucraina il contrasto fra falchi e colombe potrebbe manifestarsi. Non tanto adesso, quando tutte le forze di vario orientamento e colore tendono a unirsi e mobilitarsi contro l’aggressione di Putin, ma al momento di valutare un eventuale compromesso di pace.

L’autocrate russo, tra i tanti guai provocati con la guerra, ha stimolato il crescere del nazionalismo anti russo già presente storicamente in Ucraina, da Petljura a Bandera in poi. Rinfocolato dalle vicende del 2014 con il formarsi di entità paramilitari, alcune regolarmente inquadrate nell’esercito ucraino come il battaglione d’Azov filonazista. Certo alle elezioni del 2019 il partito della destra ultranazionalista ucraina e antisemita “Svoboda” ha preso il 2,15%, ma l’aggressione di Putin, oltre a tracciare un solco di sangue fra ucraini e russi, ha inevitabilmente aiutato la lievitazione di un sentimento nazionale che si confonde col nazionalismo proveniente dalla storia ucraina.

Qualcuno teme, non infondatamente, che le armi inviate da parte occidentale alla resistenza ucraina cadano in mano anche ai soggetti ultranazionalisti e che levargliele dopo la fine della guerra non sarà facile. Queste milizie potrebbero opporsi violentemente a un accordo per loro non soddisfacente e supportare eventuali falchi politici e militari. Non solo interni, ma anche internazionali. L’ipotesi di una divergenza strategica fra Usa ed Europa sulla guerra ucraina secondo cui ai primi converrebbe l’impantanamento russo in un conflitto lungo e logorante e alla seconda una conclusione rapida della tragedia, non è campata in aria. Essa potrebbe intrecciarsi con falchi e colombe ucraini.

Forse è proprio per questo – oltre a far presente a Putin che la salvaguardia della libertà degli ucraini non è nella sua disposizione - che il Presidente Zelenskj ha annunciato che a decidere su un eventuale accordo di pace sarà un referendum popolare.
Infatti, spetterà a tutta la popolazione ucraina resistente decidere del suo avvenire, compresi i profughi negli Stati europei.

L’Europa anche su questo dovrebbe avere un ruolo di garanzia antinazionalista facendo valere il concetto, già presente nei Trattati dell’Ue, che chi vuole aderire alla Comunità europea – e l’Ucraina lo vuole - deve rispettarne le regole. In primis, il rispetto della democrazia fondata sullo Stato di diritto e l’accettazione di tutta la legislazione europea.

Anche la democrazia ucraina deve mettersi in regola.

 

 

I COSIDDETTI “CRITERI DI COPENAGHEN”, DETTANO LE CONDIZIONI DI ADESIONE

L’UCRAINA NELL’UNIONE EUROPEA

01 Aprile 2022

 

“L’Italia vuole l’Ucraina nell’Unione Europea”, dice Draghi. Premette, però, che “il processo d'ingresso nell’Unione Europea sia lungo, fatto di riforme necessarie a garantire un’integrazione funzionante”. Non si discosta sostanzialmente dai paesi dell’Unione, quelli occidentali, che pur sostenendo l’ingresso dell’Ucraina non intendono fare sconti o favorire “accelerazioni” come invece chiedono quelli orientali: Polonia, Bulgaria, Cechia, Estonia, Lettonia, Lituania, Slovenia e Slovacchia.

Zelenskj aveva chiesto l’immediata adesione all’Ue il 28 febbraio scorso, il giorno dopo il parlamento europeo ha votato una risoluzione per concedere all’Ucraina lo status di membro candidato all’ingresso nell'Ue: 637 voti a favore, 13 contrari e 26 astenuti. Un atto di grande rilevanza politica e un sostegno agli ucraini all’inizio dell’aggressione di Putin.

I cosiddetti “criteri di Copenaghen”, dettano le condizioni di adesione: economia di mercato funzionante, la stabilità della democrazia e lo Stato di diritto, nonché l'adozione di tutta la legislazione europea e dell'euro. Sul sito dell’Unione europea è succintamente spiegato il percorso. “Il paese che intenda aderire all'UE – è scritto - sottopone la sua candidatura al Consiglio, che chiede alla Commissione di valutare la capacità del paese candidato di soddisfare i criteri di Copenaghen. Se la Commissione dà parere positivo, il Consiglio adotta un mandato di negoziazione. Sono allora avviati ufficialmente i negoziati, che procedono settore per settore. I negoziati richiedono molto tempo, perché la mole della legislazione europea che i paesi candidati devono recepire nel loro ordinamento nazionale è considerevole. Durante il periodo di preadesione i paesi candidati beneficiano di aiuti a livello finanziario, amministrativo e tecnico”.

Ora, la democrazia in Ucraina è parecchio zoppa, anch’essa dominata dagli oligarchi e da una corruzione endemica, scaturisce dal tracollo sovietico, ed è incistata da una presenza nazionalista di antica data che si riallaccia a personaggi storici del nazionalismo antirusso, che è stato anche antisovietico e anticomunista, come Petljura e Bandera. Anche se le elezioni del 2019 con la vittoria di Zelenskj sono state più vicine agli standard europei, a differenza di quelle russe lontane mille miglia da questi medesimi standard. Nel 2015 in Ucraina furono proibiti tre partiti comunisti e votata dal Parlamento una legge che equiparava nazismo e comunismo. Il direttore del Centro Wiesenthal di Gerusalemme Efraim Zuroff la definì “oltraggiosa”, una “grande bugia che trasforma i carnefici in vittime”. Anche perché l’antisemitismo non fu e non è per niente estraneo al nazionalismo ucraino. È evidente che la voglia di aderire all'Ue, che fu alla base dei moti antirussi del 2014 cui Putin rispose con l’annessione della Crimea e il conflitto nel Donbass russofono, impone all’Ucraina di uscire sia da una democrazia zoppa sia da un’economia dominata dagli “oligarchi”.

Le democrazie, anche quelle vigenti nell'Ue, non sono tutte eguali. La loro qualità progressista dipende dallo svolgersi delle vicende politiche interne e dagli esiti, pressappoco, del confronto fra le destre conservatrici e le sinistre progressiste. La condizione imprescindibile perché si possa parlare di democrazia è l’esistenza dello Stato di diritto con tutto ciò che esso comporta: divisione e indipendenza dei poteri, libertà di pensiero, di stampa, di manifestazione, libere elezioni, leggi non discriminatorie verso le donne, gli immigrati, gli orientamenti sessuali, il credo religioso ecc.. Anche se pure queste condizioni generali, per dirsi piene ed effettive, devono superare, eliminandoli, gli scogli della diseguaglianza sociale, come, per esempio, prescrive la Costituzione italiana.

Sta di fatto che nell’Ue non tutti gli Stati, vedi Ungheria, Polonia e altri, rispettano lo Stato di diritto e, ultimamente, sono stati sottoposti a procedure d'infrazione fino alla minaccia da parte della Commissione europea di non assegnargli la quota loro spettante del Recovery fund.

L’aggressione di Putin all’Ucraina deve spingere l’Ue a una politica più solidale e comunitaria su tanti terreni: energia, Difesa comune, politica economica ecc. e a un salto di sovra nazionalità democratica nella governance e nelle Istituzioni, a cominciare dal superamento del principio di unanimità e dall'elezione di un parlamento su base sovranazionale e una commissione europea responsabile solo nei suoi confronti. Questo salto è indissolubile dal consolidamento di un impianto democratico più netto e stringente di quanto non prevedano i Trattati dell’Unione. È arrivato il momento che l'Ue si doti di una Costituzione che chiuda le porte al nazionalismo, allo sciovinismo, al revanchismo risorgente negli Stati membri.

A chi vuole stare nella Comunità europea, come l’Ucraina ma non solo – sono diversi gli Stati che hanno fatto domanda di ammissione, soprattutto i balcanici appartenenti all'ex Jugoslavia -, è bene far sapere che l’Ue intende essere una Comunità solidamente democratica, pacifica e antifascista.

 

 

 

L’ORRORE DI BUCHA

05 Aprile 2022

 

Bisognava saperlo. Quando c’è una guerra d’aggressione come quella di Putin contro l’Ucraina, l’orrore non ha limiti. Quei poveri corpi con le mani legate dietro la schiena, assassinati con un colpo alla testa e lasciati marcire lungo la strada e quelli che emergono dalla fossa comune di Bucha, testimoniano di una bestialità già conosciuta in altre epoche e in tante altre parti del mondo. È la reazione dell’aggressore alla resistenza della popolazione aggredita che non accetta di essere occupata e invasa. È la stizza di chi non capisce perché gli ucraini non l’hanno accolto con rose e fiori e allora si sfoga contro i civili. Non è solo una rappresaglia è un crimine contro l’umanità.

È una violenza cieca che abbiamo già conosciuto durante la seconda guerra mondiale per mano dei nazifascisti a Marzabotto, a Oradour, a Lidice, alle Fosse Ardeatine. Che abbiamo visto in Vietnam a Mỹ Lay e in Irak per opera di americani e inglesi, a Sabra e Shatila in Libano per opera dei cristiano-falangisti lasciati gentilmente passare dagli israeliani di Sharon, in Siria per opera di Assad e dei suoi sostenitori, in Kurdistan per opera di Saddam Hussein e dell’Isis e in ogni luogo dove un popolo si è battuto contro un’aggressione o contro una dittatura.

In questo momento prevale giustamente e comprensibilmente l’indignazione contro l’aggressore che è Putin e la voglia di ribattere colpo su colpo. La risposta va data, ma bisogna rimanere lucidi. Non devono affievolirsi i tentativi di arrivare a una soluzione ragionevole e a un compromesso che faccia cessare una guerra insensata che da oltre un mese insanguina l’Ucraina sconvolgendo l’Europa e il mondo. Il presidente dell’Ucraina Zelenskj ha detto che bisogna “continuare a trattare nonostante l’orrore” di Bucha per arrivare ad un accordo di pace con i russi.

L’orso russo è inferocito ma ha la bomba atomica. Da una parte c’è lui e dall’altra l’Ucraina. Il sentiero stretto del compromesso è stretto, deve prevedere da una parte la salvaguardia della sovranità ucraina e dall’altra le garanzie per la Russia in ordine alla sua sicurezza e a quella degli ucraini. 

Altra strada non c’è, se non un’escalation di orrore e di morte che può portare alla guerra mondiale termonucleare.

 

 

 

 

UN NUOVO ORDINE MONDIALE SOTTO L’EGIDA DELL’ONU

07 Aprile 2022

 

Nuovo ordine che ripudi la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali

Secondo alcuni esperti di politica mondiale la guerra d’aggressione di Putin contro l’Ucraina, con tutti gli orrori quotidiani che ci fa vedere, avrebbe anche lo scopo di indurre tutti alla costruzione di un “nuovo ordine mondiale”. La prima cosa da dire, per evitare equivoci, è che bisogna respingere e sconfiggere chi attua la guerra per raggiungere questo scopo.

Ma veniamo a come si presenta la realtà effettiva.

Il vecchio ordine, scaturito dal crollo del comunismo, dell’Urss e dei suoi satelliti, e dopo l’’89 a egemonia unilaterale americana, non è più confacente ai nuovi rapporti di forza economici e anche alla diminutio capitis della Russia. La Cina è più che interessata a tale “nuovo ordine” soprattutto sotto il profilo economico, ma non è molto favorevole all’uso della forza per ricercarlo perché mette in crisi le sua crescita economica e perché è contraria alla modifica unilaterale dei confini degli Stati. Non a caso si è astenuta alle Nazioni Unite sulla risoluzione di condanna dell’aggressione russa agli ucraini. Xi Jinping ha invitato l’Unione europea, nell’incontro avuto con Ursula von der Leyen l’1 aprile, a farsi autonoma dagli Stati Uniti, ricambiato dalla Presidente della Commissione europea con l’invita non essere “equidistante” fra aggredito e aggressore.

Il mondo è diventato multilaterale. Gli Usa sono una potenza economica e militare, la Cina lo è diventata economicamente e lo sta diventando anche militarmente, la Russia vuole ridiventarlo militarmente sul piano europeo e mondiale, l’Europa lo è economicamente ma non militarmente, senza politica estera univoca e senza una Difesa comune all’altezza della bisogna. Poi ci sono tante potenze militari medie e anche piccole in possesso di armi nucleari: India, Pakistan, Gran Bretagna, Israele, Francia, Corea del nord.

Le vecchie alleanze militari, la Nato, CSTO (Russia e altri in Asia) Rio Pact (Nord e sud America) sono diventate obsolete, nate in un’epoca dominata dai blocchi contrapposti. Perciò è giusto che questo “nuovo ordine mondiale” sia costruito partendo dal mondo di oggi e non da quello di ieri. Dovrebbe farsi nell’ambito dell’Onu che è, con tutti i suoi limiti, l’organismo mondiale creato per mantenere la pace dopo il secondo conflitto mondiale. Il punto è su quali basi e princìpi deve costruirsi.

Vediamolo.
Quando il Presidente statunitense Roosevelt volle la creazione dell’Onu, ottenendo alla fine l’assenso di Stalin, lo pensò come organismo certamente mondiale ma governato da quattro potenze: Usa, Urss, GB, Cina. I “quattro poliziotti” che, secondo lui, avrebbero dovuto tenere in riga i facinorosi garantendo la pace fra le nazioni. Le cose, come si sa, andarono diversamente. I primi a litigare fra loro furono proprio i “poliziotti”. Oggi fra i “poliziotti buoni” dovrebbe esserci l’Unione europea, purché esca dal suo nanismo politico di vaso di coccio fra vasi di ferro.

L’orizzonte di un’Europa unita, democratica e sociale, dotata di una propria Difesa, agente di pace sul piano mondiale, a cominciare dall’Est europeo, dal vicino Oriente e dall’Africa, dovrebbe essere l’orizzonte della sinistra e di tutti i progressisti europei. L’atlantismo sorto nella “guerra fredda” del dopoguerra, è oggi un ferro vecchio e pericoloso. Lo testimonia la scriteriata espansione della Nato a Est dal ’99 in poi. Il futuro di pace e di progresso è l’europeismo sovra nazionale in un continente dove è nata l’dea del socialismo e che da quella idea è stato a lungo influenzato e coltivato.

La prima cosa da affermare – ripeto - è che non è possibile accettare la guerra come strumento per conseguire il “nuovo ordine”. Perciò l’aggressione di Putin all’Ucraina va fermata e sconfitta.

La seconda è la salvaguardia del diritto di ogni Nazione, indipendentemente dal regime politico e sociale che la governa, all’indipendenza e alla sovranità.

Qui, come dimostra l’esperienza dei decenni passati, sorge un problema. Troppo spesso, soprattutto da parte americana, si è usato il pretesto di “esportare la democrazia” di tipo occidentale per coprire vere e proprie guerre d’aggressione come in Medio Oriente e in Irak. Ogni paese facente parte dell’Onu deve rispettare lo Statuto e i princìpi democratici e i diritti umani e di libertà previsti dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1948 che sono alla base delle Nazioni unite. Ma non sempre è possibile, per salvare il bene supremo della pace, conciliare i due diritti. Da una parte la non interferenza nel regime interno delle Nazioni aderenti, la salvaguardia della loro sovranità e indipendenza e, dall’altra, il rispetto dei diritti umani e democratici.

Ai fini della costruzione del “nuovo ordine” e del mantenimento della pace fra i popoli e gli Stati nell’era atomica, il rispetto di sovranità e indipendenza è realisticamente prioritario rispetto ai diritti umani e democratici il cui conseguimento va perseguito – salvo i casi d’intervento diretto espressamente previsti, approvati e organizzati dall’Onu - tramite i mezzi esterni della pressione diplomatica ed economica e, soprattutto, affidato alle lotte della popolazione e alla maturazione interna ai singoli Stati.

La terza gamba dell’accordo sul “nuovo ordine” è la realizzazione del principio di cooperazione paritaria per far fronte alle minacce globali che sono di fronte all’umanità: salute, ambiente, riscaldamento del pianeta. E poi quello, non meno importante, della collaborazione economica, a iniziare dall’approvvigionamento delle materie prime per lo sviluppo sostenibile e a una nuova regolazione del commercio internazionale. Non si tratta di eliminare la competitività economica fra gli Stati, che sta alla base della globalizzazione e dell’interdipendenza economica dell’ultimo quarantennio, ma di sottrarla al dominio di un capitalismo selvaggio e distruttivo per ricondurla nell’alveo della civilizzazione sociale e democratica, vantaggiosa per l’intera umanità. Ai tempi del mondo diviso in blocchi politici, militari e ideologici contrapposti, l’Urss di Krusciov lanciò la proposta di “coesistenza pacifica” fra i due sistemi, il socialista e il capitalista, da svolgersi essenzialmente sul terreno economico, Allora l’obiettivo dei sovietici era di dimostrare come il sistema comunista fosse superiore economicamente a quello capitalista. Non è andata così, come sappiamo. Oggi, per la costruzione di un “nuovo ordine mondiale”, s’impone il principio di cooperazione multilaterale in tutti i campi fra gli Stati e le grandi potenze.

La quarta è il disarmo nucleare e la riduzione delle spese militari. A cominciare dalla contrazione progressiva delle testate nucleari adesso in possesso di diversi Stati: Usa, Russia, Francia, Gran Bretagna, Israele, India, Pakistan e Corea del nord. Solo Stati Uniti e Russia ne hanno più di cinquemila ciascuno, bastevoli per incenerire la civiltà umana.

C’è chi dice che oggi ci sarebbe bisogno di una nuova Yalta, intesa non più come spartizione del mondo fra i vincitori della guerra contro il nazifascismo – per la verità quella spartizione, stando ai documenti, fu più il prodotto di Potsdam che non di Yalta – ma come affermazione di “un nuovo ordine” mondiale che, come prescrive la nostra Costituzione e ripete in continuazione Papa Francesco, ripudi “la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”.

Sì, ma sotto l’egida dell’Onu.

 

 

 

 

RUSSIA. BUON SENSO E LUNGIMIRANZA

Il perno della soluzione politica è la neutralità del paese degli ucraini

 

9 aprile 2022

 

L’aggressione di Putin all’Ucraina ha tante conseguenze non solo in Europa ma nel mondo. È una guerra in cui s'intrecciano una legittima resistenza all’aggressore e il confronto fra grandi potenze e anche interessi diversi fra chi, vedi gli Usa e l’Unione europea, sostiene gli ucraini e chi sta, pochissimi in verità, con la Russia. Si pensi alla posizione della Cina. Le sfumature sono molteplici e orientarsi non è facile.

Tra le tante disgrazie provocate da questa guerra, una delle più gravi è la carestia che si abbatterà su tanti paesi dell’Africa, provocando la morte per fame di tante persone e di tanti bambini. Altro che i “condizionatori” di Draghi e l’aumento dei prezzi delle derrate alimentari che tanto preoccupa la grassa Europa.

Ma c’è di più per quanto riguarda il futuro di uno dei protagonisti della guerra: la Russia.


Il paese di Putin è un colosso di 17864345 km². Un quarto in Europa e tre quarti in Asia. Conta circa 144 milioni di abitanti. È un mosaico di popoli e di religioni. L'80% della popolazione è composta da russi etnici, poi ci sono Baschiri, Ceceni, Ciuvasci, Cosacchi, Evenchi, Tedeschi, Ingusci, Yupik, Calmucchi, Careliani, Coreani, Mordvini, Osseti, Taimyri, Tatari, Tuvani, Jakuti, Ucraini e molti altri. Le religioni: cristianesimo ortodosso, Islam, ebraismo, buddismo e perfino, in minima parte, il paganesimo.

Questo paese così composito e scarsamente popolato ha le armi nucleari: poco meno di seimila e vettori di tutti i tipi, a lungo e medio raggio, per lanciarle in ogni parte del globo.

Qualcuno ipotizza, e qualcuno fortemente spera (Biden), che in caso di una sconfitta rovinosa in Ucraina non solo si avranno conseguenze sull’attuale leadership di Putin ma sull’esistenza stessa dello Stato russo. Quanto alla prima ipotesi, che cosa potrà accadere è difficile prevederlo, dato che si tratta di una dittatura autocratica con una classe dirigente che però opera in un parlamento, la Duma, non proprio eletto liberamente rispettando tutti i requisiti dello stato di diritto, ma comunque rappresentativo. Lenin definirebbe l’attuale Duma “la stalla del parlamentarismo borghese”, pur dicendo che bisogna starci per utilizzarla. Si presume, inoltre, che il consenso popolare a Putin, almeno per ora, non sia scemato, anzi. E non è detto che chi gli dovesse succedere sarebbe meglio di lui che pure è orribile.

La seconda congettura è inquietante. Uno smembramento della Russia creerebbe un terremoto in Europa e in Asia al cui confronto l’attuale guerra in Ucraina, con tutto il suo orrore, diventa una bazzecola.

E come si metterebbe con le armi nucleari? La Russia di Putin non è l’America di Ford che seppe incassare la débâcle del Vietnam, anche se non ne ha mai imparato la lezione.

Anche partendo dalle ipotesi più inquietanti, come quella di chi l’ipotizzata e qui riportata, oltre che da tante altre ragioni contingenti a breve e medio termine fra cui, prima di tutto la fine del conflitto, si arriva a una conclusione obbligata: che si giunga al più presto a un accordo che da una parte salvaguardi l’indipendenza dell’Ucraina e dall’altra non umili la Russia. Il perno della soluzione politica è la neutralità del paese degli ucraini.

Questa sarebbe l’effettiva vittoria per la resistenza ucraina. E, insieme, quella della pace, del buon senso e della lungimiranza.

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