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Per Vilma

ASPETTANDO L’HARMATTAN, DI VILMA COSTANTINI

di Mario Quattrucci

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Vilma Costantini è una viaggiatrice instancabile. Dello spazio e del tempo, dell’altrove e del qui, dei vasti continenti e delle regioni profonde dell’animo.

I suoi versi raccontano questi viaggi, raccontano cioè le scoperte che il suo sguardo compie in esterni e in interni, in visione oggettivata e in sprofondamento soggettivo. In forma di parole, naturalmente, procedendo coi suoi versi ─ come dice Giacomucci ─ “da una poetica della soggettività a una poetica dell’oggettività”.

Ma in realtà ciò che cade sotto la sua esperienza sensibile ─ che si trovi ai tristi tropici, o al centro della Cina, o sotto la luce smorzata di casa sua, sotto “un sole grigio” ─ sia che la realtà del viaggio, dell’altrove, le si presenti in forma visiva e tangibile o che le ritorni improvvisamente alla memoria (stavo a Pechino come/ alla stazione di Battersea…) ─ dà luogo a una rigogliosa produzione di pensiero, di riflessione storico filosofica, di espressione di sentimenti profondi e intricati.

Viene di qui che i suoi reportage/poemi non ci appaiono come racconti di viaggio ─ o non solo ciò ─ bensì come viaggi reali nel cuore di tenebra del mondo, o ─ e forse innanzitutto ─ come ricerca di sé nel profondo del suo mondo interiore e delle sue relazioni umane e affettive.

Quanto poi, e come, questo viaggio incessante possa essere rappresentato, cioè comunicato e detto in forma di racconto, è affidato al suo verso sapiente, al ritmo in cui le parole, appunto, si danno, in cui “la pagina allungata dalle righe” si dà per voce ed immagine.

 

In Aspettando l’harmattan il viaggio ci porta nel Golfo di Guinea, sulle rive dell’Atlantico, alla porta maledetta da cui partivano i carichi di schiavi che fornirono parte essenziale dell’accumulazione originaria americana.

Storia, memoria e attuale miseria dell’Africa e dell’umanità sono il tema di un racconto di ignominie e violenze, di tradimenti e sottomissioni, di attese senza speranza e coscienza del mai.

L’harmattan è un vento di terra che porta detriti e polvere, che rende opaco l’orizzonte, “confonde i sentieri dove andare per questo dicono rende gli uomini inquieti infonde la follia che li condanna al male” e che fa accettare di pagare per colpe che non hai commesse ma accetti di pagare… L’harmattan ─ che sentiamo in tutta la sua valenza metaforica ─ “spegne i focolari disperde i legami e muta gli affetti in odio, condanna al disprezzo il più debole e allontana il povero”, da esso si dovrebbe fuggire se non fosse che esso è anche speranza che cancelli con la sua violenza il male.

E se non fosse quindi che “cento harmattan saranno sempre meglio dell’indegna stagione a casa mia”: in cui allegoricamente Vilma ci spinge al nostro hic et nunc e, forse, ad una possibile speranza di riscatto e rinascita e vita.

 

 

Poi ─ come nella bellissima sciarada senza risposta, o a risposta negata, del poema “in forma di parola” ─ il viaggio/racconto è un misterioso inseguimento di voci che le susurrano o gridano o si esprimono in “sillabe atone” e in un “muto dialogo” attraverso ogni mezzo che la parola ha a disposizione di sé: dal mormorio ravvicinato al telefono alla metafora al frammento dell’eco. Come un’inesausta ricerca delle sorgenti del Nilo del suo proprio essere e amare: sorgenti non raggiungibili, amore non svelabile “neppure in allegorico senso”, neppure nella chiara trasparenza delle rime e dalla prigione delle strofe, né dall’insensato artificio che gira attorno al senso, né dalle conversazioni, né dalle parole scritte in forma di lettera…

 

Ancor più misterioso e incessante è, o sembra, il cammino de “Il corpo estraneo”.

Siamo in quel grigio di casa nostra, sotto il nostro cielo e, come dice Lunetta, il gioco delle pulsioni tra psiche e matericità manifesta la propria sospensione/tensione dentro un gorgo irrisolvibile.

“Il gioco a trovare/tra i segni convenzionali/un percorso/anche al chiuso…” comincia e si svolge ma sempre senza un’uscita possibile, che non sia l’incontro e lo scontro con il “corpo estraneo” che abita Vilma come abita, e ne sciorina le prove, ognuno che viva ed ami. Poiché il corpo estraneo è l’altro, il corpo estraneo è il fratello, è la memoria di tutti i misfatti dell’uomo, è l’altra parte di te di cui liberarti, da allontanare, da eliminare perché “si nutre di te/è morbo che ti distrugge è menzogna…”, ma anche perché se “non hai la rabbia di saperlo/senza alternative che/diverso/non hai mani impotenti a stringere/la sua/non hai voglia di farlo/e basta/non hai a lui preferito/essere solo/allora/non lo ami abbastanza”.

Ma ─ e qui è il gorgo irrisolvibile ─ quel corpo estraneo non può essere straniato perché esso non è ma è “riflesso nell’acqua”, non può essere toccato perché ad allungare la mano cadresti, perché il suo corpo è dove non sono, il suo nome è quello che scegli…

Qui, in questo poemetto, la elisione delle congiunzioni, dei nessi sintattici e grammaticali, non è artificio sperimentale ma significazione dell’affanno, del rovello, della faticosa ricerca, del dolore per l’impossibile liberazione… La forma del verso e delle strofe, dell’intero poemetto, fa tutt’uno col valore della scoperta, è cioè sostanza del racconto.

 

In Cammino inverso il tema del viaggio, o ancor più del pellegrinaggio, torna in forma di ballata che risuona di stilemi anticheggianti, ma con una vis politica e morale e ideale assolutamente contemporanea: il pellegrino medievale attraversa le plaghe d’Europa e del mondo del terzo millennio adveniente e vede che, come al suo tempo, sotto il segno del Padre, “il mondo è sordo” “landa desolata”; se è abitato lo è dalla menzogna; dominato dai ricchi e potenti, dal malaffare e dalla brama d’oro, immerso nei disastri e nelle guerre, soffocato dal sangue e dalla fame.

E gli Immortali, i Profeti, i Salvatori come Budda o Cristo? Tutti uguali: portarono la luce, ascesero al cielo e non si videro più.

A Roma, poi, sede terrena del Cristo, il pellegrino del tempo non trova più niente se non un immenso drug─store e i resti affumicati di un incendio che arse ogni cosa. In forma di ballata una relazione devastante della realtà della storia…

 

Con L’ombrello di Livingstone siamo di nuovo in Africa, anzi nel luogo in cui l’uomo, l’Homo sapiens, ha avuto la sua culla.

Ed è narrazione di un luogo e di un tempo ─ africano, del mondo ─ che si svolge in forma piana, distesa, sembrerebbe serena (in cui compare perfino la parola contento/contenti): se non fosse per i contrasti che ci pone sotto gli occhi, tra l’arsura della terra degli africani e il verde dei prati dei coloni, se non fosse per la povertà ancora assai prossima alla miseria assoluta in cui vivono adulti e bambini malgrado la bellezza usurpata che li circonda e quel loro rapporto con la natura…

E se non fosse, anche, per la struggente amara malinconia per la perdita del paradiso che emana da tutto il poema: e di freddo odio per lo stupro compiuto dal bianco cristiano ─ dottor Livingstone, suppongo ─ su quel continente e su tutto il pianeta…

 

In The way of life ─ Modo di vivere, scritto in inglese e tradotto in italiano da lei medesima, Vilma Costantini ci conduce in America al tempo della Conquista del West, della Nascita di una Nazione e, dando anche voce ai capi indiani, ci narra dell’altro genocidio (dopo quello dei negri) compiuto per l’accumulazione originaria (di terra e d’oro) dei Bianchi americani con la Bibbia in mano: il genocidio dei nativi americani e delle loro nazioni.

Là dove è la base su cui fu edificata la grande Nazione, la Democrazia americana, e la mai abbastanza esaltata american way of life. Che tradotto in italiano vuol dire la legge del più forte: con oro e whiskey (e sarà poi anche Coca Cola e cocaina) e armi a volontà, nei secoli e nel mondo.

 

“La città del Bianco Imperatore”, l’ultimo dei poemetti di questa straordinaria raccolta, racconta in chiari versi intrecciati coi versi di antichi poeti cinesi l’ultimo viaggio sul fiume Yangzi, il Fiume Azzurro: e l’amara visione di un’altra violenza. Questa volta ─ o come sempre ─ sul paesaggio e sugli uomini che da sempre lo abitano.

Milioni di persone vengono cacciate dalle loro case e dalla loro terra millenaria, intere specie animali, un paesaggio unico e stupefacente verrà cancellato dalla Diga delle Tre Gole e un intero mondo sarà trasformato in un lago artificiale lungo 500 chilometri, fogna e discarica a cielo aperto, in nome dello sviluppo e del PIL. Ammantato di bandiere scarlatte un nuovo capitalismo autoritario, incapace di creare progresso rispettando il pianeta, esercita sul Celeste Impero il suo feroce potere.

   

Ho già rilevato via via come la forma, o se preferite lo stile, la scrittura dei sette poemetti, vari in conformità della materia. Ognuno seguendo uno schema diverso, battendo un tempo diverso, avvalendosi di differenti costrutti.

Se ne risaliamo cronologicamente la stesura ci avvediamo però che essi vengono assumendo sempre più nettamente un andamento che direi di scrittura illuministica, in corrispondenza con una lettura razionale e illuministica della realtà.

Vi è insomma, nei sette testi, una ricerca linguistica e formale consapevole e rigorosa, ed essa ─ ma insieme alla materia trattata ─ pone quest’opera nel solco di una modernità che si accampa al di fuori e lontano, anzi di contro, all’angustia e alla insopportabile poetica di “emotività sintetica” (Giacomucci) che grava e si sgrava onninamente ogni giorno nel purtroppo comune contesto della poesia italiana di oggi.

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