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Pe la Critica

ACCOPPIAMENTI GIUDIZIOSI

GEORGES DE LA TOUR E L’INORGANICO

di Marcello Carlino
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Georges de La Tour, Diogène, vers 1615-1620
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Giorgio De Chirico – Le muse inquietanti - 1918

Non c’entra la derealizzazione anestetizzante che pervade l’ideologia, che fu epidemica fra gli intellettuali, intitolata al postmoderno, aggrappata al pensiero dominante del virtuale e confortata dalla filosofia compensativa del supplemento protesico; non c’entra il sex appeal dell’inorganico (nella chiave del prolungamento/negazione del corpo, come nelle appendici vestimentarie) di cui ha scritto con acutezza Mario Perniola. Intendo per inorganico, meno estensivamente e con più puntuale riferimento alle maniere pittoriche e alla loro storia, l’immobilizzazione delle immagini e il rasciugamento dei loro tratti antropomorfi, la loro metamorfosi in forme-volumi che depotenziano, riducono, contengono la portata mimetica dei segni. Tanto che le figure umane, all’occhio che osserva, possono sembrare cristallizzate o impagliate, marmorizzate, svuotate comunque di sostanza organica.

Sono varie le ragioni per le quali si perviene a scelte operative cosiffatte: vi concorrono in alcuni casi regole di composizione stilistica che rimontano a tecniche e a teorie della pittura storicamente determinate (e ad orizzonti d’attesa contestualmente definiti); in altre circostanze a decidere sono soprattutto le intenzioni d’autore in rapporto ai temi trattati e agli stessi desiderata della committenza.

Quando, negli anni di primissimo Novecento, specialmente a riguardo del ciclo assisiate e di quello della Cappella degli Scrovegni, sono state evidenziate prefigurazioni cubiste nella pittura di Giotto, tanto nel paesaggio di contorno alla storia sacra quanto nel taglio dei personaggi, questi e quello semplificati in corpi rastremati e geometrizzati, l’annotazione di tale annuncio profetico, certo strumentale e non poco arrischiata, trovava tuttavia un suo aggancio nel fatto che nel secolo di Giotto si dà un modo sintetico di costruire e dipingere gli esterni (come quinte di scena) che fa scuola e nel fatto che le tecniche dell’affresco impattano sulla definizione figurale (commisurate, del resto, anche al calcolo della distanza dell’opera dal punto di osservazione), nonché, infine, nel fatto che a Giotto interessa più d’ogni cosa un fluire serrato della narrazione e che perciò il racconto – come in una sequenza di biblia pauperum – con la sua drammaticità e con il suo formativo percorso soteriologico fa premio sulla singolarità e sulla particolarità degli attanti. Accade che le figure femminili e maschili in contesti remoti, alle origini dell’arte di cui è stata fatta narrazione, si qualifichino, allorché istoriate, per una loro postura quasi di stampo ideografico, che ne segnala una costituzionalità e una deificazione sostanziali; o che, come nei mosaici bizantini o nelle icone di grande tradizione, la giustezza e l’ortodossia religiose vogliano le immagini di Dio e dei santi eternamente composte, immutabili e richiedano, per i sembianti che li impersonano, una fissità che persegue un trascendimento della realtà terrena dell’uomo e lo esprime con lucidature come riflettenti, con patinature come marmoree. Necessità espressive legate ad obiettivi di simbolizzazione o di astrazione ideale o di ricerca di una autenticità primitiva da infanzia dell’umanità (e dello stile della rappresentazione) o di rapimento in una dimensione trasognata, prossima a riversarsi in un mondo parallelo, motivano una messinscena dei corpi che interdice il pieno riconoscimento di un loro costituirsi su di una materia organica (e si confrontino, per esempio, alcuni soggetti in laico convegno di Vittore Carpaccio o alcune signore en plein air di Seurat, vestite di tutto punto sotto la cupola di un parasole sulla riva della Senna). E l’inorganico guadagna la ribalta e il primissimo piano concentrandosi nei manichini che popolano la pittura metafisica alla De Chirico (e non solo) eretta sul mito: messaggeri o funamboli alla Nietzsche, i manichini, di un mistero di una luce meridiana che, per essere percepito e vissuto, impone un superamento dell’umano, del troppo umano.

La casistica prodotta è tutt’altro che esauriente, ne sono convinto; è quanto basta per precisare, nondimeno, che, posto a confronto, il sex appeal dell’inorganico, di postmoderna memoria, attiene a sua volta a processi di estetizzazione surrogatoria, di eternante e compulsiva mitizzazione che coprono, tuttavia, il vuoto di una postumana civiltà dello spettacolo; è occasione, frattanto, per rammentare quanto l’inorganico su cui puntano le avanguardie spesso praticandolo, appare per statuto negato al sex appeal e risulta da atti di torsione, di scissione, di frammentazione della materia; e serve, infine, a chiamare sul proscenio, in ruoli da protagonista, Georges de La Tour.

Solo in parte scoperto nel secolo scorso, con un vissuto e con una storia di lavoro artistico per lo più ancora da scrivere, La Tour merita speciale attenzione anche e soprattutto in relazione alle forme del contenuto dell’inorganico che si rinvengono nelle sue tele.

Formatosi nel contesto del postcaravaggismo internazionale, avendo forse respirato la novità rappresentata da Caravaggio e dal suo barocco direttamente in Italia, la luce è il metodo e lo strumento della pittura del lorenese. Una luce particolare, una luce da lanterna e più spesso da candela, una luce candente (dalla sua fiamma si accende una pipa, sulla sua fiamma si soffia) che sortisce effetti particolari: mentre trapassa una mano e la rende d’aspetto ligneo (L’educazione delle Vergine, 1648), il suo insistere e il suo rifrangersi su di una superficie ristretta, quale è quella che essa può circoscrivere in un quadro di ambientazione notturna (la galleria di La Tour consta prevalentemente di ritratti in interni, in ore che diremmo della sera e della notte), imprimono netta la sensazione che una fronte sia di marmo polito (San Sebastiano soccorso da Irene, 1650), che una gamba sia di acero trattato col coppale (La Maddalena penitente, 1642-1644), che il bambinello di Betlemme  sia di celluloide (L’adorazione dei pastori, 1640-1645; Natività, 1648). Nel frattempo volumi geometrizzanti incappottano le figure (Giobbe deriso dalla moglie, 1635-1638) e le fisionomie sono liberate da segni specifici di identificazione (anche da quelli che la cultura di tradizione e le convenzioni artistiche hanno nel tempo normato e autorizzato per la pittura di soggetti religiosi).

Restando sembianti nella loro interezza, e nella loro interezza consegnandosi al non detto e al non visibile di una surrealtà incipiente, i corpi fatti inorganici dalla luce e dalla luce picchiettati e quasi incisi, sono spinti ad un passo dal subire espianti, dallo smembrarsi, dal perdere il valore di connotazione del loro insieme (la rappresentazione, congiuntamente, esita tra il sacro e il profano, poiché gli stessi temi delle storie bibliche e delle vite dei santi finiscono franti, dis-tratti). Il trattamento di commutazioni inorganiche della materia dei corpi, nella pittura di La Tour, sa imprevedibilmente di premonizioni d’avanguardia, tanto involontarie quanto tuttavia da inscrivere a bilancio. Magari in una refertazione a venire, dopo una accurata anamnesi di cui questo accoppiamento giudizioso è semplicemente una premessa.                    

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