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Le Parole tra Noi

ASSUNTA SÀNZARI PANZA

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Benedetto poièin

 

Qui si discorre

del grigio del gramo dello spento

di quante fitte al petto

irreparabile follia d’istanti eterni

han condotto al lago ghiacciato

che non scioglie le sue acque lastricate

al sole d’albe nascenti.

 

Resta attonito l’attimo arcano

sovrano di funeste lotte,

palpiti assenti. Non arretrano

i passi dolenti della colpa

non scavalcano il peso del grumo di sangue.

 

Il pane essiccato giace sulla tavola muta:

nessun commensale, nessuna vivanda.

I grani di sale rodono il tempo,

tovaglia stesa, stinti i colori dei girasoli.

Di lontano il saluto del padre.

Non si apre la porta:

rimane un blocco di pietre sventrate

da pensieri di carne levata.

 

Ora è là che rimesta

toni a lungo reclusi,

è la che declina inviti,

depone le armi sulla foto

non ancora ingiallita,

giovane donna-fanciulla

sposa di tempi leggiadri

che attende il momento solenne,

capelli di seta, abito dono di madrefeconda,

ancora una madre, la terza carezza,

la prima fatua reminiscenza di parto.

 

Inreparabile tempus:

ritorno allo splendore greco

dell’isola incanto superbo colosso.

La nave partiva. Partivano i sogni

con tinte di rosso, un gioco,

un racconto mai perso

sigillato nel rigido inverno

della città d’acque e arte. Urbs picta.

 

Quella sera la nebbia

un tuffo un coro di voci

teatro di tragedie mai scordate

nebbia soffusa profusa

gabbia di rondini, ostaggio di voli rapiti.

Ora il manto ricopre

il famelico volto d’acciaio

già la pace sovrasta la foschia d’ombre

intirizzite dal fumo d’una gioventù

strappata alla corona ribelle.

 

I rintocchi del campanile nelle ore

di riposo richiamano l’attenzione.

Fisso lo sguardo sulla cornice

che avvolge le figure, inchioda la mente

sul mancato ritratto del giorno presente.

Le dita trapassano il fiato

orli di canti andati

filastrocche dette ridette

lambiti i ritmi: un passo, due passi, tre,

ancora uno snodo di tempo riverso.

 

Vincotto nel gelido quadro d’autore

sapore stupore ingorda bocca

la laguna le maschere la danza perpetua

i finti volteggi di colletti inamidati

annodati i nastri scarpe a punta

fini giacche velluto azzurro di tersi spiragli.

 

I viaggi traversano la mente sopita

orizzonti scolpiti spezzati confini

pagine avvolte dall’aspra radura

arbusti qua là nella non più verde boscaglia,

muta il colore, muta il tocco lieve

si leva la brezza di pace ramata

ma non cessa l’ascolto incessante di voci

virgulti in campane di vetro

come rosa perfetta perenne e rossa.

 

Una goccia sfiora la seta

s’intravedono trasparenze assottigliate.

Cosa resterà dell’intento di vita?

Pensieri annodati come crine folto

la voce incrinata fa eco nella tiepida

stanza mentre il rombo del chiasmo

appare nei suoi occhi di fuoco,

arde la follia di un mondo

che nemmeno lei comprende

perché troppo esteso.

 

Cammina sul filo, prova a danzare, barcolla

e intanto ride a labbra serrate,

dal moto feroce del ventre

distillato di brina granelli di puro estro.

Ascolta una canzone: «Ma Coraline

non vuole mangiare, no,

sì, Coraline vorrebbe sparire».

 

Non spariscono gli occhi di croce:

attendono risposte. Lei non sa

non conosce non vede lontano

forse non può vedere non vedrà

divelta la luce asservita al flebile urto

del respiro ordigno di guerra.

 

— Àlzati — un grido si leva,

forse un ultimo colpo di lancia

ordisce la brezza del plumbeo raccordo

contro il petto affannato stremato,

spettri si librano in coro.

Si lascia andare, si ferma, lo sguardo

va in fondo al dirupo dilaniato

da fiere volto di pece.

 

Issata è la bandiera di pace

mentre si volta e vede una bimba:

miraggio acqua viva pianure fertili

la prende per mano le cinge le forme

la stringe non allenta la presa

una brezza potrebbe rapire

il suo passo vago veloce,

avanza le dita incrociate piccole mani

nel palmo racchiusa la forza

guardinga d’un gioco di forza.

 

Battiti, intensi ticchettii

di pioggia improvvisa

scrosciante tirannia inconsueta

beffarda sinfonia d’artista inascoltato

note d’una musica dìssona

squarci di tenebra.

E sul palco cala il sipario.

Occhi puntati sulla scena invisibile:

nessun attore, nessuna comparsa,

solo il truce gesto

assilla la mente inquieta.

 

Stanche le braccia attendono

il fiore scarlatto.

Si colma l’attesa, si placa

l’onda dei silenzi,

le note riecheggiano ancora

liriche azione catarsi

l’arsura notturna finalmente

spenta da grafemi salvifici:

benedetto poièin.

 

 

* * *

 

 

Elmo lucente

 

Quando infuria la tempesta di pace

la rugiada che libera il respiro

annodato la notte, poi rinfresca

così assopito l’occhio felino.

 

Si placa anche il ronzio d’ombre fugaci

nelle notti di cera un urlo orante

la crepa profonda squarcia l’abisso

cala il pulviscolo dell’irreale.

 

A terra pietre roteanti scagliate

famelica furia ventre di terra

ospizio di cori voci inattese.

 

Passo ingombrante calpesta la scia,

trapassa i contorni l’elmo lucente:

ecco la spira di guerra avvolgente.

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