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Storia, Cultura e Società

SVILUPPO SOSTENIBILE?

di Mario Quattrucci
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Ugo Della Seta nell’ultimo numero del 2021 di malacoda.it – La rivoluzione (in)sostenibile - rilevava come ormai non si parla d’altro che di sostenibilità: economica, ambientale, perfino politica, perfino etica, ma mai di «sostenibilità sociale». Il perché viene chiaro: «Perché affrontare realmente l’argomento porterebbe ad utilizzare una parola innominabile, tanto scandalosa quanto spaventevole, tanto desueta quanto imbarazzante: la parola RIVOLUZIONE».

Quale rivoluzione? Lasciamo da parte, per il momento, la rivoluzione politica (che pure ne sarebbe una necessaria conseguenza), e affidiamoci a due concetti – o prospettive/progetto – d’ordine strutturale: un diverso modello di sviluppo, una decrescita serena.

A ben guardare, i due concetti/progetti indicano il medesimo indirizzo e il medesimo fine: eliminare le disuguaglianze sociali ed etniche estese fino alle iniquità più disumane, salvare il pianeta e dare all’umanità un futuro senza guerre, senza fame, senza schiavitù. Ma un nuovo modello di sviluppo che raggiunga tali obiettivi - propugnato già dagli anni Settanta dal socialismo più avvertito e lungimirante (Berlinguer, Brandt, Lafontaine…) ed ora clamorosamente ripreso niente meno che dal Papa Bergoglio -, è chiaro che richiede (richiederebbe) un vero e proprio rovesciamento dell’attuale dominio neo-neo-capitalistico e del suo verbo. Oltre, naturalmente, un nuovo patto internazionale che riconduca alla lettera ed allo spirito della Carta fondativa dell’ONU (1945) e della Dichiarazione universale dei diritti umani, e dunque ad una visione unitaria dello stato del mondo – der Stand der Dinge -, del genere umano e delle interazioni ormai costanti tra i “fatti” di ogni soggetto geopolitico, statale, etnico. [esempio: foresta amazzonica; esempio: pandemia]. In una parola ciò che Berlinguer chiamò «la necessità di un governo mondiale».

È quindi chiaro perché Della Seta (e noi con lui) parli di rivoluzione, ma insostenibile. E perché un tale “rovesciamento dello stato delle cose presente”, pur necessario, si presenti allo stato dei fatti come utopia.

In questo contesto la decrescita serena, peraltro, è intesa appunto come base materiale di tale prospettiva/progetto… se realmente si voglia operare per la salvezza del pianeta e per l’abbattimento, per quanto graduale, delle ingiustizie, iniquità, oppressioni generate e mantenute dall’odierno sistema mondiale economico e delle relazioni internazionali.

In sostanza: se si vuole una crescita sostenibile + la fine della terza guerra mondiale è necessario avviare una decrescita. E ciò è immediatamente comprensibile (ma finora non accolta da alcuno Stato) se si pensa, ad esempio, alla produzione di armamenti e al necessario disarmo. Comprensibile ma non accettato da nessuno se si pensa, come dice Mario Tozzi, «alla riduzione dei consumi, autoproduzione e autoconsumo di beni… che dovrebbero essere decise spontaneamente da quella parte del mondo che si avvantaggia dell’attuale situazione.»

Dunque utopia inerme. E sarà così, ma… Ma forse qualche considerazione o piuttosto domanda possiamo azzardarla. Tanto per non debordare, soltanto tre.

È possibile, è sostenibile, che ogni anno vengano gettati via da ogni abitante degli USA, e altrettanti dagli Europei, 99 chili di cibo?  E se non è sostenibile e se si deve porvi riparo (come stanno facendo in Danimarca) non è forse chiaro che dobbiamo acquistare di meno e dunque far produrre di meno almeno per noi? Lasciando cioè da parte la questione dell’iniquo divario per cui mentre nelle società opulente (dette perciò icasticamente civiltà dello spreco) lo sviluppo si fonda appunto sulla dilapidazione (tanto più orribile in quanto riguarda sostanze alimentari), una parte non indifferente di queste stesse società non solo non può sprecare niente ma vive nella indigenza (in Italia un bambino su 7 non mette insieme il pranzo con la cena), e un sesto dell’umanità, in civiltà diverse, è flagellato dalla fame e dalle malattie derivanti? , insieme ad altri che sopravvivono in ristrettezze e povertà?

È possibile, è sostenibile che mentre grandi masse -  miliardi di africani, asiatici, sudamericani, ma anche parti delle nostre civilissime società - sono costrette dalle crisi e dagli eventi internazionali a forti ristrettezze, e mentre rimangono o addirittura aumentano le carenze di strutture e servizi in settori fondamentali come la sanità, la scuola, l’assistenza, la ricerca, i trasporti…, aumentano a dismisura i consumi di lusso, l’acquisto di beni dal valore stellare, e l’insensato coatto consumo di beni non necessari e superflui?

È possibile, è sostenibile – socialmente ed ecologicamente - che ad esempio in Italia si conti un’automobile ogni cittadino e mezzo infanti e vecchi compresi?

Ma ci si rende conto, sento immediatamente l’obiezione, che cambiare questo stato di cose significherebbe produrre una crisi catastrofica dell’economia e della società?

Sì, ci si rende conto. Ed è quindi evidente che, come per la conversione verde e per quella digitale, si tratta di procedere per gradi e per spostamenti di settori e valori. Ad esempio: diminuzione della produzione per lo spreco e insieme linea olivettiana di diminuzione dell’orario di lavoro ed aumento del salario/stipendio, formazione e dirottamento sulla produzione di beni e servizi per lo stato sociale, aumento del trasporto pubblico a trazione elettrica… E così via, e così via… Insomma appunto un N.M.S. - Nuovo Modello di Sviluppo.

 

 

Ma dove prendere le risorse per l’avvio di un tale processo? Già: questo è il problema. Ma perché in tutti i discorsi sulle possibilità finanziarie dello Stato e sul suo deficit di bilancio si parla sempre solo di uscite e mai di entrate… se non di quelle caricate sul popolo/gente? Ricordando peraltro anche qui, ancora una volta, che l’85% delle entrate erariali in Italia vengono dal lavoro dipendente e dai pensionati… I soldi ci sono, centinaia, migliaia di miliardi, ma sono da un’altra parte: Svizzera, Lichtenstein, IOR, San Marino, Caiman ed altre off shore, ma parlare di obbligare i tycoon proprietari (uno dei più intraprendenti è, come noto, il Cavaliere) non dico a posare l’osso ma a riportarli a casa e ad investirli nei nuovi settori del futuro e, a profitto ragionevole e non colonialistico, come invece è quello della odierna Big Farm, nei continenti della arretratezza e miseria? Ma non avevano celebrato il 4.0 day e – la U. E. – la nuova solidarietà globale?

 

 

A chiarire quanto esprime la teoria della decrescita l’articolo di Pietro Osti (il bolive.it) – La decrescita è vintage ma di moda - e l’intervista di Eleonora Lombardo a Serge Latouche (la Repubblica) – Ecco cosa ci ha insegnato la pandemia.

 

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