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Per la Critica

DOMENICO REA, IL ‘NEO-NEOREALISMO’

E L’IMMAGINARIO BAROCCO

di Stefano Lanuzza

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Anticipa il Convegno su Domenico Rea e il Novecento italiano, tenuto all’Università Federico II di Napoli (9-11 novembre 2021) in occasione del centenario della nascita dello scrittore, una preziosa antologia critica curata da Francesco G. Forte per il volume Domenico Rea nel canone del Novecento (Oedipus, 2021, pp. 142, € 14,00).

   Il volume accoglie saggi di Walter Pedullà (La scrittura magra di Domenico Rea), Renato Barilli (Purché vi sia il neo…) e Domenico Scarpa (Le 99 disgrazie di Pulcinella…); con, in aggiunta, un capitolo sul critico teatrale Giuseppe Bartolucci studioso di Rea (Il ghigno amaro, la risata terribile), seguito da un’Appendice (Le ragioni di Nofi)  includente tre essenziali interviste con lo scrittore condotte da Forte, Corrado Piancastelli e Alessandro Baricco.

 

Dopo il felice esordio con Spaccanapoli (1947), racconti espressionistico-dialettaleggianti che nell’ambiente letterario italiano dell’immediato dopoguerra suscitano viva curiosità per l’originale debuttante, è soprattutto a partire dal 1950, con la stampa della raccolta, ancora di racconti, Gesú, fate luce (Premio Viareggio 1951), che, anche grazie alla prestigiosa prefazione di Francesco Flora, Rea ottiene il serio riconoscimento della critica e, viste le riedizioni succedutesi anno dopo anno, un successo notevole presso lettori finalmente interessati al primo innovatore della tradizione del realismo: un ‘neo-neorealista’ progressivo, ricco d’estro e di talento.

 

 

“Spaccanapoli sedusse i critici più ritrosi” scrive Flora; mentre “Gesú, fate luce è libro meglio affabile e persuasivo, che più intensamente risolve nello stile i contrasti fulminei o anzi compresenti del riso e del pianto, della tenerezza e dell’uccisione, in una tragedia che è come iscritta in un’opera buffa napoletana, e in quell’alone acquista il rilievo e presuppone la trama dei trapassi, non più visibile di un velo. Perché proprio nell’elettrico scontro di motivi opposti ed estremi, che son presenti un una stessa vicenda e direi in una stessa frase, è la particolare natura ed è lo stile del Rea”.   

   La tragedia insieme ad argomenti ora ilari ora dolenti, l’ironia bozzettistica, la parodia maliziosa e il partenopeo tratto comico, la gioia e il lutto, il corporeo triviale, “un vernacolismo alleato ai modi della tradizione classica”, la teatrale buffoneria, la pantomima, la caricatura, le patetiche superstizioni popolari e il climax allucinatorio, l’idillio, l’elegia e la truculenza delle immagini, le traumatiche interiezioni, una pirotecnica mobilità di eventi, il pittoricismo, infine l’incombente sciagura doppiata da un’“alta pietà” sono, tra irrequiete, magnetiche alternanze, i temi trattati dal “nuovo scrittore, che ad alcuni è parso ‘la rivelazione’ degli anni seguiti alla guerra”.

   Inquadra, Flora, meglio di altri collegi critici, l’impronta d’un narratore non indifferente – avverte – a certo facondo “barocchismo (e questa è la parola che più torna)” riconducibile – tra le congrue letture del libero autodidatta Rea – alla tradizione baroccheggiante del côté campano dei Giordano Bruno di Nola, Giambattista Basile di Giugliano, Vico e Imbriani napoletani; o dei poeti dialettali napoletani, specie Di Giacomo: quanto apparirebbe in contrasto con l’ipotesi di Pedullà allorché il critico metterebbe in evidenza “la narrativa magra” di Rea, la brachilogica foggia scrittoria che si vorrebbe peculiare nelle narrazioni di vicende del Sud.

   Accade tuttavia che lo scrittore – approfondisce Pedullà col suo tipico periodare ‘umoristico’ – riesca con una fraseologia vieppiù folta a far passare “per massimo di secchezza il massimo di densità”, sì che “a un certo punto Rea non ce la farà più a essere secco e metterà su tanta carne”. Lo mostrano prove come quello “splendido concerto” che è La cocchiereria, traversie di Scuotolantonio e della sua cavalla Cucca vittime della prevalenza dei taxi a scapito delle carrozzelle coi cavalli nella Napoli che, una volta, “contava oltre cinquemila cocchieri, sette od ottomila carrettieri, centinaia di maniscalchi”. O – segnala Pedullà – gli “angelici tre personaggi” animatori di La generazione del vino. Insieme al farsesco di Una scenata napoletana o al drammatico Estro furioso: allorché, nello scrittore nato a Napoli e, alternando viaggi e soggiorni in Italia Europa Brasile, vissuto a Nocera Inferiore (mitica “Nofi” dei rioni Bùvero Sperandei Pietraccetta Capofioccano Capocasale Casolla Marrata Fiano…), s’osserva una “coincidenza” tra realismo e l’attenzione verso un’“arte dello scrivere a regola d’arte” che guarda alla prosa d’un mai dimidiato D’Annunzio e, (pensando al neoilluminista Sciascia?), a un sagace rondismo.

 

Si parla d’un realista? Sì, ma rigorosamente ‘neo’ e inusitato. Realistico “purché vi sia il neo” che “fa la differenza”, lo stile di Rea – pone Barilli – sa rendere il proprio genere “profondamente diverso dal realismo” tipizzato, statico e pedissequamente refertale: estraneo, per dire, a quello di talune prove dei Cassola, Pratolini o di coloro che “hanno avuto il torto di credere alla predicazione di Lukàcs” ferreo mentore del realismo cosiddetto socialista; oppure di un Pasolini che, nei suoi due più noti romanzi (Ragazzi di vita, 1955, e Una vita violenta,1959) rischia di mettere un paternalistico diaframma fra sé e i personaggi subproletari narrati. Diversamente, spicca da parte di Rea la capacità d’identificazione linguistica, di empatia o integrale “immedesimazione” coi soggetti riferiti; che, per esempio nel corporale romanzo Ninfa plebea (1992, Premio Strega 1993), contraddicono la prevalente supposizione che lo bollerebbe abile facitore di storie brevi trascurando il franco narratore svincolato da modelli precostituiti.   

 

 

Col precedente romanzo Una vampata di rossore (1959, Premio Napoli 1959), che – ricorda Scarpa – Domenico Porzio ha definito “un solo periodo lungo duecentocinquanta pagine”, Ninfa plebea, scritto chissà se per il puntiglio di trasvalutare l’ipotesi che lo vorrebbe solo novelliere, sollecita solerti puntualizzazioni da parte della critica più attenta (cfr., in proposito, la curatela di Francesco Durante per il Meridiano Mondadori Domenico Rea - Opere, 2005; con Introduzione di Ruggero Guarini) non meno di un’ulteriore glossa correttiva di Barilli, che specifica: “Anche se devo ammettere che il percorso neorealista legittima in pieno Rea come autore di novelle, non posso dire che il romanzo sia da vedere con qualche perplessità perché è assolutamente omogeneo, consustanziale agli stessi principi”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                             

Lasciato a lungo “in secondo piano” e fuori dei gruppi letterari dominanti, con taluni a stigmatizzarlo, banalmente anzichenò, perfino “bozzettista naif”, è oggi un fatto che nel canone letterario novecentesco la presenza dell’opera reana, da iscrivere “nella tradizione della buona prosa italiana” (Flora), divenga ineludibile quanto quella dei suoi più prossimi Tozzi Alvaro Carlo Levi Brancati Jovine Strati La Capria o la Ortese – o la stessa Matilde Serao candidata più volte al Premio Nobel.

   Così compendia Scarpa nel suo comparatistico e affollato saggio dalle onomastiche a effetto di massa, soffermandosi su Una vampata di rossore, funesta storia familiare dalla trama elaborata e naturalisticamente insistita, il cui codice “napoletano svisato dal toscano” avrebbe “forse contribuito a impedire il riconoscimento della sua novità. Si può concludere suggerendo che Rea non se lo meritava?”.                                                                 

    Segue, promosso da Forte, un ricordo di Bartolucci, talentuoso Beppe recensore cinematografico e letterario interessato “ad autori e tempi della letteratura meridionale nel suo complesso” da lui ritenuta “la più vicina alla vita, alle contraddizioni di una società in fermento, alle esplosioni e alle disperazioni degli uomini”, ciò che lo avvicina all’opera di Rea “del quale, probabilmente, fu tra i più appassionati lettori critici”.

   Un’attenzione costante è dedicata da Bartolucci al romanzo breve Ritratto di maggio (1953) segnalando “il periodare classicheggiante di Rea, intriso di violenze sintattiche in coerenza alle esplosioni di vita dei suoi personaggi” – e c’era il critico marxista Salinari convinto, nel caso, di trovarsi di fronte al “giovane scrittore italiano più dotato”.

   In continuazione col Ritratto, sorta di memoria scolastica, un – fu detto –“anti-Cuore”, c’è la silloge di racconti Quel che vide Cummeo (1955), opera stigmatizzata per certi suoi tratti retorico-didascalici circa il processo di maturità del ragazzo Cummeo che “sogna l’America” per poi ripiegare verso un esistenziale “ritorno alla campagna”. Ma questa, piuttosto, vorrebbe essere “una nota nuova nell’arte del Rea” adesso pacificata e scevra d’ogni risentimento di classe, che rende il disteso, compiuto finale del racconto “degno di un grande narratore”. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                                                  

Del 1956, in seguito a un viaggio a Praga e la patita delusione venendo a contatto col residuale bolscevismo stalinista – lo stesso disinganno palesato da Louis-Ferdinand Céline nel libello Mea culpa (1936) dopo un soggiorno in Unione Sovietica –, è il distacco di Rea dal Partito comunista italiano dov’è stato precoce militante. E, nel 1958, ha un discreto successo la rappresentazione a Roma della sua tragedia in tre atti Le formicole rosse a proposito di un’umanità brulicante in ogni dove senza poter raggiungere nessun luogo sperato.

Ora – riferisce Forte nell’intervista Tre domande…, già uscita sul bimestrale “Lo stato delle cose”, n. 5-6, 2000 –, ecco Rea impegnarsi a rispondere sulla propria condizione di scrittore del Sud. Pure riconoscendosi appieno come un meridionale inevitabilmente ‘straniero’ ed emarginato nell’elettivo spazio “tra Napoli e Nofi”, egli tiene a dire che, in ogni caso, la dimensione da lui vissuta gli appare “equivalente ad un Nord in un certo senso”; nonché a un ideale, più ampio luogo che “vale New York, vale tutto e niente”. Contrazione anagrammatica di Nocera Inferiore, Nofi – spiegava Rea a Piancastelli autore della monografia Domenico Rea (1975) – è la Patria, “il nome di un regno dall’orizzonte illimitato […,] è l’infanzia, l’adolescenza, la giovinezza, l’amore, le scoperte terrestri e celesti, la terra del lavoro, dell’ingiustizia sopportata con fierezza e ironia…”.

   Dichiarandosi lettore, fin da giovanissimo, di molta parte della “grande letteratura occidentale”, denuncia come il suo Sud risenta di non poche censure antiregionalistiche insieme agli avvenimenti storici europei quali la rivolta ungherese del 1956, tra le cause della “fine del monopolio culturale comunista in Italia”, della compressione dei ceti popolari e della perdita d’identità politica dei progressisti politicamente impegnati. Tali e talaltri temi Rea li concentra nella raccolta di saggi e articoli giornalistici, redatti in una quindicina d’anni, Il re e il lustrascarpe (1960), con un’affettuosa evocazione del popolare romanziere pre-verista Francesco Mastriani, attendibile teste ad actum della plebe partenopea napoletana, “l’unico scrittore che a suo modo sia disceso negli abissi analfabeti e superstiziosi del suo popolo”.

 

A conclusione del volume presentato da Forte, accogliente una rara intervista uscita su “La Stampa” (Rea: il mondo è Nocera, 3 luglio 1993) a proposito di Ninfa plebea (che, premiato con lo Strega, stacca d’una spanna i romanzi della Maraini, di Clara Sereni, Rossana Ombres ed Emilio Tadini), Baricco pone l’accento sulla lingua dell’autore: ricca di odori e colori, voci e volti “che ti vengono incontro [e] sembra che li puoi toccare”. Una lingua fantasmagorica e inusitata, “non la classica lingua letteraria del bello scrivere. Qualcosa di diverso. Da dove nasce?”.

   “È una lingua per tre quarti inventata” riscontra lo scriba-onomaturgo: è, il suo, un mondo tutto personale (“Se uno non ha un mondo, dietro e dentro, non ha niente da scrivere” rivendica), sostenuto dal codice inventivo di chi non ha studi regolari e proviene da una famiglia priva di cultura o d’interesse per i libri – insiste Rea come apparentandosi ai gloriosi autodidatti che marcano la letteratura italiana del Novecento, i Nobel Deledda Quasimodo Montale Dario Fo… “Ho fatto da me […,]” dice “uso le parole che mi piacciono, non importa se sono italiane, dialetto o cosa. […]. Io racconto delle parole”. Appunto le parole, che creano personaggi e fatti.

   Rea è stato un lettore costante, oltre che dei Dostojevskij Flaubert Kafka fino a “Caldwell e Miller” (Flora), dei classici italiani, dei trecentisti, di Boccaccio e dei barocchi, in particolare Basile (“il mio vero maestro”, un Rabelais italiano dell’immaginario barocco, “il favolista da cui tutti hanno copiato”), di Leopardi Alfieri Manzoni sulla scorta del giudizio desanctisiano; è stato lettore dei novecenteschi Gadda Brancati Buzzati e del primo Cassola (Il taglio del bosco, 1950)… E Sciascia? “Lo amavo all’inizio, poi si è messo a fare il Voltaire e non l’ho più letto”. Ma Calvino? Calvino è Il visconte dimezzato (1952), è Il barone rampante (1957): “Poi si è messo a fare il Borges e ho smesso di leggerlo”.

   Ed è vero che abbia destato della curiosità l’erotismo di Ninfa plebea? No: era “sesso, sesso, non erotismo. […] Io scrivo la natura… non è erotismo… quello. […] Chiamo le cose per nome. Non che ci sia molto altro da fare”: dove sembra di cogliere un vago tic dell’argotier Céline, verso cui Domenico Mimì Rea, non troppo a sorpresa, confessa l’assiduo culto. Ciò, se non bastasse, lo attesterebbero anche i suoi 35, sulfurei Pensieri della notte (1987), céliniano voyage au bout de la nuit intorno a certa Napoli notturna e spettrale, assimilabile a una fatiscente banlieue parigina.  

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