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Per la Critica

APERTURA DELL’ANNO MANGANELLIANO

di Francesco Muzzioli
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Con largo anticipo sulla data anniversaria, che cadrà a novembre, dichiaro aperto l’Anno Manganelliano. Lo faccio subito, onde precedere gli strombazzamenti e gli osanna che promulgheranno questo appena iniziato 2022 come l’Anno Pasoliniano. Certo Giorgio Manganelli è meno popolare e meno mitizzato di Pasolini, ha coperto meno generi artistici (poeta con ritegno, non è mai stato ch’io sappia regista di cinema), non è assurto per nulla a “maestro di vita”. E tuttavia molto più “corsaro” è stato nel campo della scrittura e fondamentale addirittura per le sorti, qui da noi, di quello che più volte in questo blog è stato definito “il romanzo anomalo” – che poi è come dire, essendo la finzione narrativa genere principe di un certo “immaginario collettivo”, che è stato ancor più scandaloso.
Mettersi sotto il segno di Manganelli significa allora dedicare l’anno entrante alla riflessione sugli usi e abusi della narrativa; nonché cominciare, ancora prima del 2023, a ripensare convintamente la nozione di avanguardia.

Il modello di avanguardia rappresentato da Manganelli è curioso, sostanzialmente paradossale: si va in avanti con lo sguardo rivolto all’indietro (un po’ come l’angelo di Benjamin). Ciò che il nostro autore intuisce precocemente è che la lingua letteraria del passato non costituisce il vero avversario, bensì fa parte del “represso” sociale. Quella lingua, per così dire aristocratica, è un bene che la società dei consumi ci sottrae. A quel punto, il “ritorno del represso” non si conformerà al modo di un restauro e nemmeno di un compianto, piuttosto avrà il sovraccarico dell’eccesso. D’obbligo per Manganelli il prefisso iper-: iperletterarietà, iperretorica, iperbarocco, ecc. Dunque non un’avanguardia penitenziale, fatta di tabù e di divieti, ma un’avanguardia del “troppo”. Le sarà chiara la coscienza che retorica (cioè valenza ideologica) c’è sempre e che non vi sfuggono neppure i più elevati sforzi romantici di pervenire a una pretesa autenticità. La letteratura più autentica sarà proprio quella dell’“artificio”, della “macchinazione”.

Questa oltranza ha portato Manganelli ad aderire alla neoavanguardia anche se era palese la differenza del suo stile sontuoso e delle sue invenzioni bizzarre rispetto alle atomizzazioni semantiche. Laterale nel Gruppo 63 (anche nel convegno sul romanzo sperimentale interviene brevemente e a posteriori), ancor più la sua proclamazione di inutilità della menzogna è distante dalla “productivité dire texte” del Sessantotto. Curiosamente, la funzione-Manganelli si potrà ritrovare più avanti e più ancora che nei rari narratori dotati di stile, nella nuova generazione dei poeti (i vari Ottonieri, Frasca, Frixione, Durante, delli Santi, Pinto) che s’intrigano nelle forme chiuse e nel lessico obsoleto.

Ma occorre precisare: nessuna nostalgia conservatrice o pietas verso il passato perduto, la “cerimonialità” manganelliana è esplicitamente venata di parodia, si apre a una dialettica di apoteosi e rovina, di sublime e ridicolo, nonché a intrecci mostruosi. Suo lo stato di “ossimoro permanente”, inalberato fin nel titolo della prima opera, Hilarotragoedia.

A caratterizzare Manganelli e a distinguerlo da qualsiasi “realismo stilizzato” (compreso quello di Gadda, malgrado il noto diverbio…) è il posizionamento nel fantastico, la costruzione di mondi impossibili, anzi di non-mondi, l’Ade, l’Inferno, la Palude, luoghi, per così dire, concettuali. Allo stesso modo la sua prosa è di genere ibrido, una sorta di “discorso di mezzo”, in cui il propriamente narrativo, oltre ad inclinare alla favola, tiene soprattutto funzione digressiva.

Nell’estremizzare la finzione in quanto “menzogna”, Manganelli ne esalta l’alterità aberrante, la differenza radicale: “diserzione”, “disubbidienza”, “infedeltà al proprio tempo”. Proprio nel 1968, Manganelli rispondeva così a Moravia che aveva riattizzato l’annosa polemica contro l’illeggibilità dell’avanguardia:

D’altro canto, esistono scrittori che non coltivano una programmatica affidabilità; non lusingano il lettore, anzi non senza protervia aspirano a inventarselo da sé: provocarlo, irretirlo, sfuggirgli; ma insieme costringerlo ad avvertire, o a sospettare, che in quelle pagine oscure, velleitarie, acerbe, in quei libri faticosi, sbagliati, si nasconde una esperienza intellettuale inedita, il trauma notturno e immedicabile di una nascita. Il loro lavoro letterario si concentra su di una tematica linguistica e strutturale; domina la coscienza dell’atto artificiale, anche innaturale della letteratura; e si celebra la fastosa libertà, l’oltraggiosa anarchia dell’invenzione di inedite strutture linguistiche. Discontinue schegge di retorica, coaguli linguistici inadoperabili per compiti di socievole sopravvivenza, infine, carattere supremamente distintivo, una lingua letteraria improbabile, fitta di citazioni, anche maniacale: una lingua morta. Non è letteratura affettuosa, non accarezza i cani, in genere non svolge compiti missionari.

 

Arte asociale, arte impolitica. Per chi – come il sottoscritto – ritiene che tutto sia politica si tratta non di respingere dogmaticamente, ma di intendere queste tesi-limite; ossia di capire la politicità anche di una simile dialettica sottrattiva. Insomma, c’è tutto da riflettere e da imparare da un “Anno Manganelliano”. Per quanto l’autore avesse qualche perplessità sui centenari («E se una volta o l’altra i centenari si guastassero»?) e, piuttosto che un anno celebrativo, avrebbe sicuramente preferito una “scommemorazione”.

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