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L’ EBANO DI RYSZARD KAPUSCINSKI

di Antonio Ortoleva
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Quando atterrammo la prima volta a Kinshasa, capitale del Congo ex Zaire, sul finire dell’anno 2000, avevamo in valigia due libri. Il “Cuore di tenebra” di Conrad, ambientato nel grande fiume africano, e l’Ebano di Kapuscinski, appena uscito in Italia per Feltrinelli, che fece scoppiare un innamoramento collettivo verso l’allora sconosciuto reporter polacco che aveva girato quattro continenti su cinque, spesso a piedi o con mezzi di fortuna, narrando il secondo Novecento universale secondo gli occhi degli ultimi della Terra. Appena scesi dall’aereo, e poi soprattutto nella metropoli di sei milioni di abitanti ancora scossa e squinternata dal passaggio della guerra, ci venne incontro l’odore dell’Africa sub-equatoriale. Era un afrore eccitante e dolciastro, come madido di spezie e di sudore, un vapore acqueo primordiale ad alto tasso di umidità in quel tardo autunno quasi rovente che si appiccicava alla pelle e ai pensieri.

Avevamo appena scoperto Ryszard Kapuscinski grazie all’amico antropologo Franco La Cecla, anch’egli grande viaggiatore, da Samarcanda alle Galapagos, e inesorabile scopritore di primizie umane. A Bologna avevano assegnato al Polacco il premio Creola, mentre La Cecla e l’archeologo Massimo Tosi allestirono una mostra su Chatwin, altro scrittore-viaggiante.

Pochi giorni dopo, in piroga a motore sul fiume Congo, un enorme tronco levigato da maestri d’ascia locali, accomodati su poltroncine di bambù e guidati dal nostro prete-guerriero cattolico, pare Jean Marie, che amministrava una parrocchia nella foresta dei pigmei, il Bandundu - a seicento chilometri dalla capitale - fummo sequestrati da una squadra di paramilitari.

Si annunciarono sparando una raffica di kalashnikov in aria, che attirò i nostri sguardi verso sud-est, verso una piccola piroga in arrembaggio. Erano in tre, un giovane aitante in divisa militare e calzoncini, in piedi, a gambe divaricate e sguardo spavaldo, che imbracciava il mitra, il secondo accovacciato a prua, in mano un revolver, il terzo alla manetta del motore fuoribordo, coperto sino ai fianchi da una improbabile maglietta di calcio del Milan. Avevamo, secondo la loro versione di comodo, oltrepassato il posto di blocco, c’intimarono di seguirli sino alla riva opposta. Il parroco rifiutò con autorità la cima che avevano lanciato, onde trainarli e risparmiare così carburante. E rispose in swahili: ci vediamo all’attracco. E rivolto a noi: non dite una parola, parlerò solo io. A riva, il nostro giovane prete saltò giù e scomparve dietro a una duna non prima di averci ordinato di non scendere dalla piroga per nessuna ragione al mondo, mentre due brutti ceffi con le armi in pugno ci controllavano a pochi passi dall’acqua.

La Repubblica democratica del Congo era da alcuni anni il terreno di battaglia della prima guerra mondiale africana, così la definì il segretario di Stato Usa, Madeleine Albright. Con otto nazioni coinvolte, sarebbe costata alla fine oltre cinque milioni di morti, mentre in Occidente se ne sapeva poco o nulla. I nostri antenati, dopo aver banchettato per secoli, lasciarono il continente nero alla deriva. Mancava il cibo essenziale nel più grande Paese africano che, assieme all’Algeria, sfiorava un milione di metri quadri, i mezzi pubblici erano requisiti dall’esercito, i rifiuti delle città non raccolti da anni e impastati all’asfalto, miriadi di bande armate in circolazione.

Il tempo passava sterminato sotto il sole, ogni tanto qualcuno ci gridava di scendere e si rispondeva con un sorriso, come a non comprendere la lingua. Per abbassare la tensione e occupare il tempo, fu spontaneo sfilare il libro di Kapuscinski dallo zaino e cominciare a leggere. Il nostro Polacco conosce e frequenta l’Africa sin negli anni del disimpegno bianco, a cavallo dei Sessanta: andiamo via dopo aver schiavizzato per un paio di secoli e saccheggiato risorse e ricchezze – pensiamo al re belga Leopoldo, cui va addebitato il genocidio di un milione di congolesi al tempo delle razzìe del bianco avorio – nella fase in cui sale il desiderio e l’impeto di indipendenza. L’incipit è fulminante.

        “La prima cosa che colpisce è la luce. Gran luce ovunque, tanto sole, un chiarore abbagliante. Risalgono appena a ieri la Londra autunnale, l’aereo lucido di pioggia, il vento freddo, l’oscurità… In passato, quando gli uomini giravano il mondo a piedi, a cavallo o per nave, il viaggio dava loro il tempo di abituarsi al cambiamento. I panorami scorrevano con lentezza, la scena del mondo si spostava poco alla volta…. Oggi di questa gradualità non è rimasto più niente”.

Così scriveva nel 1958 senza intuire cosa sarebbe avvenuto dopo.

Il carceriere minorenne ci guardava incuriosito, abbassando l’arma, e quasi in soggezione, come se quel malloppo rettangolare di carta pressata fosse un oggetto sacro, sacra scrittura. E in qualche modo lo era, perché, come accade ai veri scrittori, svelava orizzonti sconosciuti non solo in terre lontane come questa, ma anche sotto casa, nel posto frequentato ogni giorno, perché chi ci vede meglio di altri sa frequentarlo in modi personali e segreti, scopre ciò che abbiamo sotto gli occhi e non vediamo, smonta frammenti reconditi e non rivelati. Più avanti nelle pagine di Ebano, il Polacco spiega una differenza sostanziale. “L’europeo e l’africano hanno un’idea del tempo completamente diversa… Nel concetto europeo il tempo esiste obiettivamente… ed è dotato di qualità misurabili… L’europeo si sente schiavo del tempo [pensare che siamo nel 1958]… Deve rispettare date, scadenze, giorni e orari. Si muove solo negli ingranaggi del tempo, senza i quali non può esistere…. Per l’africano è l’uomo che influisce sulla forma del tempo… se cessiamo la nostra azione esso sparisce. Salendo in autobus l’africano non chiede quando si parte. Sale, occupa un posto e sprofonda immediatamente nello stato in cui trascorre buona parte della propria vita: l’attesa passiva”.

Quando si parte, dunque? Quando l’autobus sarà pieno.

Anche noi siamo in attesa passiva, seduti in piroga. Saranno passate due o tre ore, nessuno porta l’orologio al polso per sicurezza, nessuno ci chiede più di scendere. Il giovane paramilitare più vicino a noi si è accosciato in posizione del loto, acquisendo un aspetto più mansueto. Tutti a bordo vengono invitati a prendere un libro tra le mani, allo scopo di mostrare forza d’animo e leggerezza, disarmati. A vedere dall’alto la scena – sei bianchi, tra i quali due donne, in una imbarcazione primordiale, in uno scenario, appena creato dall’onnipotente,  di un’acqua che non finiva mai oltre l’orizzonte – si sarebbe potuto dire che stanno girando un film.

I protagonisti di “Ebano” sono giovani insegnanti diventati ministri della cultura con l’esodo degli europei nell’era delle indipendenze nazionali – inglesi e francesi, ma anche tedeschi, belgi, portoghesi, infine italiani – o camionisti analfabeti e silenziosi nel pre-deserto nigeriano, vecchi samaritani nelle foreste sperdute del Ghana, soldati laceri al posto di blocco nelle terre aride del nulla in Eritrea. E tutti gli uomini e le donne e i bambini che attraversano questo libro magico, per una breve scena o lungo percorsi infiniti e complicati, acquistano contorni corporei, identità e descrizioni complete come in un romanzo mascherato da reportage.

Tra le pagine di Kapuscinki cresce un mango gigantesco simbolo della vita. E’ un mistero come sia nato e sopravvissuto in una prateria etiope arida e sconfinata, nonché priva di un filo d’erba. “Chissà, forse un tempo gli alberi erano molti, forse formavano un bosco, poi tagliato e bruciato, di cui quel mango è l’unico sopravvissuto”. Accanto a quella solitaria linea d’ombra sorge sempre un villaggio e sotto le fronde dell’albero solitario i bambini fanno scuola. Se un maestro non c’è, lo si inventa, si riuniscono gli anziani al pomeriggio, l’ombra diventa aula di tribunale in caso di diverbi, perché in quelle contrade ogni decisione va presa non a maggioranza ma all’unanimità. Se l’albero muore o brucia, anche il villaggio secca e scompare e ogni essere umano va per la sua strada. Altro bene supremo è l’acqua, di cui il Congo è pieno e potrebbe dare da bere a tutta l’Africa, ci diceva l’ambasciatore italiano, ma con la guerra come si fa?

Richiesto come visitor professor dalle università di mezzo mondo, pubblicato in tutte le lingue, Kapucinski non si è quasi mai curato dei processi intentati a suo carico circa la propria attendibilità. Mentre il tedesco “Der Spiegel” lo definiva “il miglior reporter del mondo”, mentre Sepulveda, Terzani e Garcia Marchez  lo chiamavano “maestro”, lo storico e politologo di Oxford, Garton Ash, lo bollava quasi come un impostore, “rappresenta un monito ai giornalisti con ambizioni letterarie a non mescolare realtà e fantasia”. Non ultimo il libro (velenoso?) di un suo allievo prediletto, il giornalista Artur Domoslawski, che la vedova dello scrittore definì senza mezzi termini un “parricidio”,  non solo indagava su tutti i presunti falsi, ma spargeva ombre nere sul suo mentore come uomo legato ai servivi segreti del regime polacco.

Ora a novant’anni dalla nascita e a quindici dalla morte, mentre in patria escono due libri e iniziative in memoria, occorre spezzare almeno una delle lance che i ribelli polacchi usarono con successo alla fine del Settecento per difendere il Paese dai russi. Il nostro Polacco ha, con tutta evidenza, due anime. E’ giornalista, e di prim’ordine, quando trasmette dispacci alla sua agenzia di stampa Pap. E’ letterato quando trasforma incontri, episodi, uomini, donne, bambini e animali in metafore e allegorie di un mondo che sa di interpretare in profondità, l’unico bianco che diventa nero per calarsi da esploratore in un cosmo sconosciuto. Sono quindi commoventi le accuse di non aderenza a fatti, circostanze e personaggi mentre sta scrivendo l’ultimo racconto di un mondo in estinzione, mentre sopravanza la modernità nei quattro punti cardinali del pianeta. Scrive con le scarpe, disse amorevolmente Paolo Rumiz, altro grande giornalista viaggiatore, perché soprattutto con esse si è inoltrato nelle latitudini arcaiche di un universo in attesa di scomparire e ne ha raccontato, con religiosità, gli ultimi battiti. Oggi nell’isola di Zanzibar, dove sorgevano i più grandi steccati, i campi di concentramento per milioni di giovani schiavi africani in attesa dei piroscafi per le Americhe, sono stati costruiti filari di resort per turisti lungo le sue splendide spiagge tropicali. Quanto ai sospetti di collaborazione con i servizi polacchi, stante la dittatura, c’è da presumere che un possibile doppiogioco fosse essenziale  per garantirsi libertà di movimento e non essere richiamato in patria e trasferito a compiti impiegatizi. Appare comunque improbabile la doppia veste di “spione” di regime e di uomo partecipe della dignità e del dolore degli ultimi ai quattro angoli della Terra dopo libri come questi, dopo “Imperium” o “In viaggio con Erotodo”.

Ah, dimenticavamo. Mentre il sole cominciava a calare sulla nostra piroga, il prete congolese sbucò d’improvviso e a passo svelto, seguito da uomini in divisa. E a distanza, e con voce imperiosa, ordinò di accendere il motore. “Presto, presto, vite, vite”. Eravamo liberi, salpammo. Frattanto, il buio in navigazione calava come un sipario nero d’improvviso, come succede sotto l’equatore dove è assente l’imbrunire, e venne acceso un faro nel pericolo dei coccodrilli, concedendoci l’ultima forte emozione della giornata. Proprio allora pensammo che non avremmo mai saputo se, a salvarci la vita o quantomeno il portafogli, fu l’autorità del giovane religioso o un libro.

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