Anno VIII - Numero 1/2022
IMPRESA E CULTURA, IMPRESA È CULTURA.
SULLE TRACCE DI ADRIANO OLIVETTI
di Alberto Improda
La Società dei nostri giorni si trova in una fase di rapido e profondo cambiamento.
Il nuovo e dirompente paradigma della Sostenibilità sta spingendo la realtà che ci circonda verso nuovi assetti, incidendo ineluttabilmente su tutti i suoi ambiti: quello Ambientale, quello Economico, quello Sociale.
Non sappiamo quale sarà il punto di approdo di questa evoluzione: probabilmente ci ritroveremo in una Società sensibilmente diversa rispetto a quella che conosciamo, basata su un modello economico e sociale che al momento non riusciamo neanche ad immaginare.
Sappiamo però quale è il ruolo che spetta alle generazioni attuali: accompagnare il cambiamento nel modo più intelligente possibile, utilizzando al meglio gli strumenti che abbiamo a disposizione e rendendo meno difficile il compito di coloro che ci succederanno.
Un soggetto fondamentale di questa fase di cambiamento, considerato il modello economico della nostra epoca, è senza dubbio l’Impresa.
L’Impresa è chiamata a svolgere un ruolo da protagonista nella transizione in atto, contribuendo in modo decisivo a determinare condizioni di Sostenibilità Ambientale, Economica e Sociale.
I compiti dell’Impresa, dunque, diventano oggi di una vastità storicamente inedita e di una profondità largamente inesplorata: l’Azienda viene a configurarsi come un vero e proprio soggetto culturale.
In questo frangente, così sfidante e delicato, l’Italia – quasi inaspettatamente e pur tra mille difficoltà – ha l’opportunità di diventare un modello di riferimento e di assumere un ruolo guida a livello internazionale.
Infatti, mentre altrove l’ampiezza delle nuove funzioni dell’Impresa rappresenta una autentica novità, piuttosto sconcertante e destabilizzante, il nostro Paese sul tema vanta tradizioni risalenti ed esperienze consolidate.
Una data storica, riguardo alla valenza sociale dell’Impresa, viene considerata il 19 agosto 2019.
Quel giorno la Business Roundtable, un influente think tank di circa duecento manager di aziende nordamericane, presieduto da Jamie Dimon, numero uno di JP Morgan Chase, ha pubblicato una innovativa ed eclatante dichiarazione programmatica.
Nel 1997 la Business Roundtable aveva pienamente aderito alla tradizionale linea della Scuola di Chicago, in base alla quale il fine unico dell’azienda consiste nel creare profitto per gli azionisti.
Il 19 agosto 2019 si verifica appunto un clamoroso cambiamento di rotta: nel nuovo documento della Business Roundtable si afferma che il purpose dell’Impresa non deve essere solo la produzione di utili per gli shareholder, ma anche e soprattutto quello di servire tutti gli stakeholder, vale a dire i clienti, i lavoratori, i fornitori, le comunità.
Questo radicale cambiamento di rotta, in verità, non ha fatto che porre la comunità internazionale nel solco di un percorso sul quale l’Italia si era già avviata con largo anticipo.
La nostra scuola di economia aziendale, in particolare con Gino Zappa e Carlo Masini, già nei primi decenni del Novecento aveva approfondito i rapporti tra Impresa e stakeholder, mettendovi al centro – davvero straordinariamente, per il contesto scientifico dell’epoca - i concetti di solidarietà, altruismo e responsabilità.
Poi è arrivata la grande figura di Adriano Olivetti, il quale intravvide con largo anticipo la crisi di un determinato modello di società.
L’Ingegnere di Ivrea, con il suo stile ispirato e visionario, scrisse che “la società individualista, egoista, che riteneva che il progresso economico e sociale fosse l’esclusiva conseguenza di spaventosi conflitti di interessi e di una continua sopraffazione dei forti sui deboli, la società polverizzata in atomi elementari o spietatamente accentrata nello Stato totalitario, è distrutta”.
Adriano Olivetti con stupefacente lucidità e incredibile lungimiranza, immaginò – già negli Anni Quaranta e Cinquanta del secolo scorso - un ruolo inedito per l’Impresa, più alto e complesso: “la fabbrica non può guardare solo all’indice dei profitti. Deve distribuire ricchezza, cultura, servizi, democrazia”.
L’Azienda, dunque, nella visione olivettiana trascende la sua storica ed ineliminabile funzione di apparato preposto alla creazione di profitto, diventando anche una realtà finalizzata alla crescita economica, sociale e culturale della sua Comunità e del suo Territorio.
Oggi il suo insegnamento è diventato un patrimonio comune e nessuno dubita più che l’Impresa sia chiamata a compiti vasti nell’ambito della Società, all’insegna della Responsabilità, della Sostenibilità e della Circolarità.
Nonostante ciò, l’opera ed il pensiero di Adriano Olivetti restano un punto di riferimento imprescindibile, perché ancora resta da fare un tratto di strada importante nel diffondere la consapevolezza dei rapporti tra Impresa e Cultura.
In questo momento di grande trasformazione, abbiamo detto, l’Azienda si trova a dover fare un ulteriore salto di qualità, a svolgere un ruolo chiave in favore dell’intera collettività, ad operare come un vero e proprio soggetto culturale.
Adriano Olivetti fu capace di anticipare anche questo concetto, ancora oggi così avanzato e non semplice da assimilare.
L’Ingegnere certamente ebbe un’idea alta della Cultura, che ebbe a definire ““ricerca disinteressata di verità e bellezza”, ma allo stesso tempo infuse elementi culturali nei meccanismi dell’impresa in modo estremamente pragmatico e operativo.
Tanto emblematico quanto straordinario fu il coinvolgimento, ad opera di Adriano, di numerosi intellettuali nei vari gangli dell’azienda.
E non si trattò di operazioni di cosmesi comunicativa, attribuendo a qualche personalità di grido ruoli di mera rappresentanza: nella Olivetti gli uomini di cultura andarono ad operare nel cuore esecutivo e pulsante dell’impresa.
Ha scritto Bruno Segre, nel suo “Adriano Olivetti Un umanesimo dei tempi moderni”, che l’Ingegnere “credeva fermamente in una funzione attiva degli intellettuali: nell’industria e, insieme, nel progetto sociale di una comunità in cui l’industria fosse momento propulsore”.
La Olivetti, racconta ancora Bruno Segre, fu un vero e proprio crocevia di personalità della cultura: “architetti come Ludovico Quaroni e Bruno Zevi, economisti come Franco Momigliano e Giorgio Fuà, sociologi come Luciano Gallino, Alessandro Pizzorno e Roberto Guiducci, psicologi come Cesare Musatti e Francesco Novara, poeti come Leonardo Sinisgalli e Franco Fortini, scrittori come Ottiero Ottieri, Paolo Volponi, Giuancarlo Buzzi, Antonio Cossu e Libero Bigiaretti, saggisti e critici letterari come Umberto Serafini, Cesare Mannucci, Riccardo Musatti, Geno Pampaloni e Renzo Zorzi, giornalisti quali Tiziano Terzani, Lorenzo Camusso e Furio Colombo”.
Nonché grandi esperti di design: “da Sinisgalli a Giovanni Pintori a Egidio Bonfante a Marcello Nizzoli a Ettore Sottsass jr, per tacere di altri collaboratori tra i maestri della grafica mondiale: Saul Steinberg, Raymond Savignac, Jean-Michel Folon, Milton Glaser”.
Giorgio Soavi, nel suo “Adriano Olivetti Una sorpresa italiana”, per parlare della Olivetti e dei suoi intellettuali utilizza la metafora della portaerei: “da quella portaerei si erano alzati in un volo stellare Gianluigi Gabetti, Franco Tatò, Paolo Volponi, Corrado Passera, Ottiero Ottieri, Franco Fortini, Geno Pampaloni, Franco Ferrarotti, Paolo Viti, Elserino Piol, Renzo Zorzi, Ettore Sottsass, Gae Aulenti, i quali non hanno mai più fatto voli radenti, ma si sono messi in testa quell’idea che hanno i piloti: volare alto”.
Oggi più che mai l’Impresa è chiamata a volare alto, ad andare oltre i propri limiti, ad assolvere a funzioni che non pensava di avere.
Ecco dunque che nella realtà contemporanea il rapporto tra Impresa e Cultura diventa una cosa nuova e diversa, che travalica il concetto di contaminazione e tende ad una sorta di autentica ibridazione.
Antonio Calabrò e Ferdinando Beccalli Falco, ne “Il riscatto”, hanno scritto in modo particolarmente acuto che, “impresa e cultura non fanno riferimento a due universi differenti, ma sono parte dello stesso mondo. Fare impresa, impresa industriale soprattutto, vuol dire investire e lavorare sui cambiamenti dei mercati, dei consumi, delle tecnologie produttive. Puntare sulla ricerca e sull’innovazione. Seguire le trasformazioni tecniche e sociali. E l’innovazione, parola chiave, carica appunto di forti valenze culturali e simboliche, riguarda tutto: le tecnologie, i materiali, i nuovi prodotti e i nuovi processi per produrli, le relazioni industriali tra le varie componenti del mondo dell’impresa e del lavoro, i linguaggi del marketing e della comunicazione. Cos’è tutto questo se non cultura scientifica, cultura economica, cultura d’impresa? Bisogna, in altri termini, passare dalla tradizionale visione di “impresa e cultura” a una visione più forte e carica di valori “impresa è cultura”.
Adriano Olivetti capì davvero con lucidità estrema, e con uno strabiliante anticipo sui tempi, che “impresa è cultura”.
Jean-Michel Folon, uno di quei fantastici trasvolatori decollati dalla portaerei olivettiana, ha scritto: “Per la prima volta una grande società ha mostrato che non esiste, che non può esistere, se non ha una dimensione culturale”.
Daniela Benelli, all’epoca Assessore alla Cultura della Provincia di Milano, nel 2007 dichiarò in un convegno, con parole estremamente felici: “In realtà, il suo modello di azienda può essere interpretato come un modello culturale. Una politica di valorizzazione del talento, che ruotava attorno a tre punti fondamentali: l’incontro tra scienza e umanesimo, l’investimento sui giovani e la concezione della cultura non come privilegio di pochi, ma come componente essenziale della vita dell’uomo”.
Laura Olivetti, figlia di Adriano, in una intervista del 2015 su Avvenire, ha detto: “La fabbrica-comunità era il tentativo di una grande innovazione culturale, per le imprese, i lavoratori e tutti i soggetti attivi del territorio”.
Oggi siamo chiamati a sfide davvero impressionanti: il modello attuale di società sta mostrando in modo sempre più evidente tutti i suoi limiti ed al tempo stesso non si intravvede all’orizzonte un nuovo modello socio-economico, tale da reggere all’urto delle difficoltà della nostra epoca.
In questo momento di transizione, straordinariamente difficile, l’Impresa deve diventare uno strumento di trasformazione sociale, un ammortizzatore delle tensioni crescenti, un soggetto culturale dialogante con le comunità circostanti.
Lo stesso concetto di Responsabilità Sociale d’Impresa probabilmente è già diventato in una determinata misura obsoleto, implicando implicitamente una qualche distanza, una certa alterità tra l’Azienda e la Società.
In questa realtà che cambia, in questo sistema che evolve, in modo rapido e senza sapere con chiarezza in quale direzione, l’Impresa è invece sempre più compenetrata nel mondo che la circonda.
In una sorta di inedita osmosi economica e sociale, l’Azienda assorbe gli spunti, i timori, le esigenze e le angosce delle persone, per poi riversare sulle comunità le proprie proposte, i propri contenuti, i propri valori: questo significa fare Cultura; questo significa, per usare le parole di Antonio Calabrò e Ferdinando Beccalli Falco, essere Cultura.
Adriano Olivetti, in un momento così complesso e impegnativo, resta un esempio illuminante ed una inesauribile fonte di ispirazione.
Ha scritto l’Ingegnere di Ivrea: “Abbiamo portato in tutti i villaggi le nostre armi segrete: i libri, i corsi, le opere dell’ingegno e dell’arte. Noi crediamo nella virtù rivoluzionaria della cultura che dona all’uomo il suo vero potere”.
Dobbiamo anche noi credere. Credere nell’Impresa. Credere nella Cultura. Credere in quelle “armi segrete” e nella loro pacifica “virtù rivoluzionaria”.
Per essere degni dei nostri doveri nei confronti delle nuove generazioni ed accompagnarle con intelligenza verso “il mondo che nasce”.