top of page
Per la Critica

ACCOPPIAMENTI GIUDIZIOSI

CLEMENTE REBORA E LA MUSICA NUOVA

di Marcello Carlino

rebora1.jpg

Giovanni Boine, nella sua “estetica” potentemente anticrociana del 1910, intitolata Un ignoto, rompe con le forme di letteratura collaudate, rifuggendo l’idillio di base lirico-melodica e l’ordine del romanzo che scorcia la realtà, perciò rasciugata in tanti compìti quadri di rappresentazione, e promuovendo una scrittura fatta di approcci e di accostamenti, di interazioni e di scontri tra universi di discorso e multiversi modi di pensiero e di conoscenza, una scrittura che si voglia espressione di una interezza “multianime” di esperienze anche a costo di esitare in frammenti (una scrittura che è al capolinea di partenza del frammentismo vociano più spigoloso e urticante, più carico di energia espressionistica). In funzione di questa ragione poetica, Boine prende a modello, tra gli altri ambiti d’arte, la musica, la rivoluzione musicale – egli dice – che è di quel tempo; con tutta evidenza ha in mente l’orchestrazione sinfonica di Wagner, schierandosi dalla sua parte (dall’altra, intanto, il melodramma di Verdi è oggetto di strenue difese, di risentite attestazioni di primati in classifica). A Wagner, del resto, ha occasione di dedicare alcuni articoli nient’affatto banali.

Wagner, è bene aggiungere, è compositore ed è teorico dell’arte che sta su di una linea di confine tra tradizione ed avanguardia e, quanto alla musica, tra effusa pienezza operistico-orchestrale ed estenuazione atonale, che in letteratura corrisponde in una certa misura alla dicotomia di totalità e frammento.

Clemente Rebora, a cui Boine destina una recensione di grande intelligenza, accentuatamente elogiativa, non è puntualmente un wagneriano, ma è uno dei più acuti “ascoltatori” – un ascoltatore e un finissimo “traduttore” in poesia –  dell’estetica di Un ignoto, ed è un appassionato di musica che conosce al meglio la necessità di un incontro, di un accoppiamento giudizioso delle due muse, fin dall’inizio sorelle; è però consapevole al tempo stesso (tanto si contiene nella definizione che dà di sé come di un musicista mancato) che il linguaggio/funzione della poesia non è il linguaggio/funzione della musica e che lo scostamento è andato accrescendosi nel tempo, lungo la storia della cultura e dei suoi specifici contesti. Tanto più se la poesia – e in questo Boine e Rebora concordano – deve sostanziarsi delle suggestioni e degli apporti di conoscenza, delle risultanze semantiche delle diverse linee del sapere e della comunicazione sociale.

Il contemperamento armonico, che è tradizione della musica cercare e curare, non può essere più tenuto in considerazione come compito e finalità qualificante da delegare alla scrittura in versi. La musica possibile di una nuova poesia è una musica nuova, che ha rimosso compostezze di suoni, che ha perduto la pacificazione paradisiaca di tonali accordi, che ha smesso repertori di canti in ossequio al bon ton della melodia.

Ad una musica non ancora precipitata nel gorgo abissalmente infernale del mondo fanno cenno i Frammenti lirici del 1913, accostando musica e conoscenza, armonia e verità, sensibilità e trascendenza, ritmo e amore («Virtù ti crea che non par segreta, / Ma il ritmo snuda l’amor che discende / Dall’universo a rivelar la meta. // Amor che nel cammino nostro accende / L’inconsapevol brama triste e lieta, / E in te, raggiunto il tempo, lo trascende»: così nelle terzine finali del sonetto, che è il frammento XVI), sul modello, ribadito dalla sostenutezza metafisica del linguaggio, della poesia-pensiero della terza cantica della Commedia di Dante. Ma come in una schiusa dialettica, a quella musica, ripresa altrove in paesaggi di abbandono creaturale fra le braccia della natura, fa eco distorta e fa contrasto la forzatura stridente, più e più volte esibita, di un lessico in rovina – un lessico da inferno dantesco capace di ridde di rime petrose – mentre le figurazioni di scena, balenando in scorci alienanti di città tentacolari, si fanno tese e le situazioni affannose, tumultuanti, sferzate da turbini e tempeste non solo metereologiche, e mentre gli chocs dell’uomo contemporaneo erompono con turgore espressionistico tra noia, disaffezione, instabilità, angoscia, appannamento ed eclissi di orizzonti verso i quali indirizzare il cammino (tra umanesimo, fede religiosa intravista e silenzio di Dio), e mentre un concorso disforico di culture e di prospezioni ideali stringe e opprime la poesia. Una poesia che giace o balza ed altro non sa, come Rebora dice di sé raccontandosi in una lettera; una poesia della dissonanza, una poesia della contraddizione è quella dei Frammenti lirici. Nel XLIX, che è manifesto espressionistico di una poetica della contraddizione, si legge Baudelaire e si ascoltano pure alcune note di Stravinskij, di una musica nuova tra tradizione ed avanguardia: «E mentre ti levi a tacere / Sulla cagnara di chi legge e scrive / Sulla malizia di chi lucra e svaria / Sulla tristezza di chi soffre e accieca, / Tu sei cagnara e malizia e tristezza, / Ma sei la fanfara / Che ritma il cammino, / Ma sei la letizia / Che incuora il vicino, / Ma sei la certezza  / Del grande destino, / O poesia di sterco e di fiori, / Terror della vita, presenza di Dio, / O morta e rinata / cittadina del mondo catenata!».

I Frammenti lirici sono tra gli ottomila della poe

bottom of page