Anno VIII - Numero 1/2022
IN SCENA AL TEATRO BELLI
DI ROMA
IO, NOI E
IL “DIARIO DI ANNE FRANK”
di Carlo Emilio Lerici
Appartengo a una generazione che ha conosciuto il “Diario di Anne Frank” sin dalle scuole elementari. Ma il rapporto che avevamo in quell'epoca, innanzitutto come bambini, ma non solo direi, con le vicende che avevano portato alle deportazioni e allo sterminio degli ebrei, venivano vissute e raccontate un po' “sottovoce”. C'era come una sorta di vergogna collettiva che impediva di affrontare il tema apertamente. Il Giorno della Memoria sarebbe arrivato solo nel 2005. Allo stesso modo anche ai superstiti non veniva dato troppo spazio per raccontare, e forse anche loro, in quel momento, sentivano un disagio profondo per la vita che aveva ripreso a scorrere, con apparente indifferenza nei confronti della loro tragica esperienza. In quegli anni il “Diario” rappresentava l'unica testimonianza ammessa pubblicamente, di fronte alla quale tutti, universalmente, si inchinavano. Era stato grazie alla determinazione di un uomo, Otto Frank, il padre di Anne, sopravvissuto ad Auschwitz, che il mondo aveva potuto conoscere la storia di una ragazzina di Amsterdam rinchiusa per due anni in un rifugio prima di essere deportata e uccisa in un campo di concentramento. Una piccola storia, apparentemente banale, fatta dei tanti episodi che riempiono la vita di tutti i giorni. Ma è stata proprio quella reclusione forzata, raccontata con gli occhi di una adolescente, che, come passando in una sorta di lente d'ingrandimento, ha amplificato a dismisura il senso di quelle semplici parole, permettendoci di comprendere, forse per la prima volta, l'enormità della tragedia vissuta non solo dai Frank e dagli altri ospiti del rifugio, ma da tutte le vittime del nazismo.
Ma poi gli anni passano, e senti dire che il “Diario” è qualcosa che ci racconta un'epoca lontana. Qualcosa da ricordare come monito, ma niente di più. Senti dire che le guerre appartengono al passato, che la violenza cieca del nazi-fascismo appartiene al passato. C'è quasi “insofferenza” verso tutte le occasioni nelle quali si ricordano quelle vicende. Senti dire che sarebbe ora di voltare pagina, che sarebbe ora, magari, di ricordare altre vittime di altre tragedie, in una sorta di contrapposizione che sembra voler unificare tutto, coprendolo sotto un unico velo pietoso. E allora senti di dover fare qualcosa. Di dire qualcosa.
Io faccio teatro. Racconto storie attraverso il teatro.
E ho sentito che era arrivato il momento di tornare a raccontare Anne Frank.
Quando ho cominciato a lavorare sul testo teatrale del “Diario di Anne Frank”, scritto negli anni '50 da due celebri autori e sceneggiatori americani, Frances Goodrich e Albert Hackett, (testo con il quale hanno vinto il Premio Pulitzer 1956), mi sono reso conto che il loro obiettivo era riuscire a restituire al pubblico lo stesso punto di vista degli ospiti del rifugio, renderli partecipi di quella quotidianità vissuta da 8 persone in 40 metri quadrati, mentre fuori da quelle mura la vita andava avanti inesorabile, e ogni voce, ogni rumore, poteva segnare la fine di tutto.
Ecco, credo che la forza di questo racconto, che tu lo legga o lo veda a teatro, sia proprio questa: riesce a portarti dentro a quel rifugio dove ti costringe a prendere atto di quanto sia sottile il confine che separa una vita tranquilla da una tragedia immane. E su quanto dipenda solo da noi oltrepassare o meno quel confine.
E' questa la preziosa eredità lasciataci da Anne Frank.
Ed è questo che rende il suo Diario ancora attuale e necessario.