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Per la Critica

Marco Palladini

DIARIO D’AUTORE

(L’AGE D’OR)

Miguel Mellino. Sebastião Salgado.

Lucia Guarino. Fratelli Mancuso.

Stefano Lanuzza.

Postcolonial? ►  A proposito di eclissi si registra volentieri la ristampa di La critica postcoloniale (Meltemi, 2021) di Miguel Mellino, importante saggio (originariamente pubblicato nel 2005) che reca il sottotitolo “Decolonizzazione, capitalismo e cosmopolitismo nei postcolonial studies” e che tematizza il nuovo approccio critico che è venuto via via ad affermarsi nelle analisi incentrate sul rapporto tra le forme di dominazione imperialista e colonialista dell’Occidente nei riguardi del resto delle popolazioni e dei paesi sottomessi in Africa come in Asia, in Australia come nell’America del Nord e del Sud. Approccio di revisione critica a seguito della (relativa) eclissi delle vecchie politiche di colonizzazione che non vuole dire, automaticamente, piena assunzione critica nella coscienza della opinione pubblica occidentale delle proprie innumeri colpe passate e presenti. Tanto è vero che continuano tranquillamente a perpetuarsi forme di neo-colonizzazione economica e di scambio ineguale a livello sia commerciale che socio-culturale. Il punto, che ben coglie Mellino, è che la vicenda storica dell’espansione occidentale ai quattro angoli del pianeta è una storia di violenza sistematica e sistemica, in un certo senso di sopraffazione ontogenetica. La ‘civiltà’ dell’uomo bianco ha sempre strutturalmente prevaricato, sino allo sterminio, le altre forme di civiltà. E per quanto gli studi postcoloniali siano progrediti, questo reale e politico ri-conoscimento della fondazione violenta e criminogena della propria egemonia, tarda ad arrivare e forse non ci sarà mai. Troppi conglomerati interessi economico-capitalistici e politico-militari lo impediscono, così come la filogenesi stessa della cultura o, se si vuole, delle culture occidentali che dipartono sempre da un prepotente ‘superiority complex’. Di cui, inutile negarlo, siamo tutti e tuttora partecipi. Il mio amico Nino Gennaro, sulfureo poeta palermitano, asseriva: “o si è felici o si è complici”. Purtroppo, gli abitanti dell’Occidente mi sembra che siano felici proprio perché sono complici.   

     

 

 

 

 

 

 

 

 

 

S. Salgado, immagine della foresta amazzonica

 

Amazzonia ► È davvero una mostra ammirevole e stupefacente amazônia, l’esposizione del grande fotografo brasiliano Sebastião Salgado visibile al Maxxi di Roma sino al 13 febbraio 2022. In primis, per il magnifico allestimento di Lélia Wanick Salgado che introduce i visitatori in una sorta di articolato antro al buio dove si incontrano, sospese come lucenti quadri volanti, centinaia di immagini in un vivido e totale bianco & nero che procurano l’effetto di un percorso immersivo nella più estesa foresta pluviale del pianeta, messa in pericolo dalle scellerate politiche di deforestazione, vieppiù implementate dall’attuale presidenza di Jair Bolsonaro. L’Amazzonia come cuore verde del mondo, suo effettuale polmone sorvolato dai “flying rivers”, sterminati, ciclopici, ultrapittorici addensamenti di nuvole che trasportano l’umidità del suolo per migliaia di chilometri e favoriscono il vitale scambio e ricambio tra anidride carbonica ed ossigeno. Le bellissime fotografie aeree di Salgado riprendono miliardi di alberi, specchi d’acqua, le capricciose serpentine del corso di decine e decine di fiumi, l’ergersi di picchi montuosi e gli orizzonti fatati e fatali di un territorio ancora, per buona parte e per fortuna, intatto, vergine, come prima dell’avvento dell’homo sapiens sapiens. C’è poi la nutrita ritrattistica delle tante tribù indigene che vivono da millenni nel ventre della foresta e che, loro sì, hanno imparato ad abitarla rispettandola, mai sfruttandola o stuprandola, in solenne comunione con gli spiriti della natura, magari ritualmente aiutati dalla ayahuasca, la vegetale droga psichedelica ricavata da alcune piante. Gli indios Waurá e gli Awá, gli Zo’è e i Suruwahá, gli Yawanawá e i Marubo, gli Asháninka e i Korubo, gli Yanomami e i Macuxi. Ogni tribù – uomini, donne e bambini – ha i suoi segni distintivi di riconoscimento: chi è completamente desnudo e ha il pene legato in vita con una cordicella e chi è interamente e austeramente vestito; chi reca uno strano corno sul mento e chi ha piercing e bacchette infilate nel naso, nelle labbra o nelle orecchie; i tatuaggi rituali e/o identitari si sprecano, anche in modo assai fantasioso e artisticamente decorativo; molti copricapi, alcuni fatti di piume a somiglianza dei capi dei nativi americani, e collane e collanine e monili femminili; gruppi di donne con i figlietti in grembo e gruppi di maschi con l’aria bellicosa dei cacciatori-guerrieri; alcuni uomini esibiscono una possente muscolatura quasi da body-builder; accanto a una famigliola in posa compare un cagnolino pezzato; alcuni bambini giocano con delle scimmiette; ci sono però anche scimmie e pecari uccisi con arco e frecce perché bisogna pure alimentarsi; la nudità delle giovani indigene è esibita con naturale innocenza, scevra di qualunque malizia. Salgado ci fa fare un ideale viaggio poetico, antropologico, naturalistico in un ecosistema miracoloso che non è il nostro passato, ma il nostro futuro, se non vogliamo che il macrocambiamento climatico porti la terra al collasso. Si esce dalla mostra col pensiero grato all’Amazzonia che esiste e resiste anche per tutti noi.

Lucia Guarino in “Superstite”, ph. Luca Del Pia

Lei balla da sola ► Certa danza contemporanea mi fa pensare alla ‘scrittura asemica’ che sta conoscendo, mi sembra, un periodo, almeno in Italia, di reviviscenza e fervore, soprattutto alimentato in rete da vari autori. Gli ‘asemic writings’ non vogliono significare nulla, ‘segnificano’ semplicemente se stessi, come altrettanti idioletti di segni disparati, tutti ciascuno differente dall’altro, come un tentativo di voler creare un proprio personale, singolare alfabeto che non vuole comunicare niente, si ostende, si mostra per lasciarsi guardare o contemplare. Poi ognuno può trovare da sé un senso a tale azione scrittoria o anche nessun senso. La cosa risulta perfettamente indifferente.  E forse meramente onanistica.

Tali riflessioni mi sono sopraggiunte dopo avere visto nella rassegna “Teatri di Vetro 2021” al Teatro India di Roma, lo spettacolo Superstite della danzatrice e coreografa Lucia Guarino. L’azione coreutica della Guarino si esplica in uno spazio vuoto sagacemente illuminato dalle luci di Gianni Staropoli, laddove sul fondale vediamo uno schermo su cui si proiettano immagini in assai lenta mutazione (vagamente alla Bill Viola) di materia rocciosa o vegetale, per terminare con un taglio visivo su una statua bronzea inclinata all’indietro. Secondo la spiegazione della Guarino “Il corpo superstite rappresenta bellezza e brutalità, ci mostra quello che non c’è più, racconta un vuoto, una voragine, un buio, un ricordo e sia esso stesso che chi lo osserva sono avvolti da un continuo movimento di indagine su questa mancanza”.   

Tale il “concetto” di una danza concettuale che di fatto propone una lunga serie di movenze ora ‘posate’ o molto lente, ora incalzanti e via via più veloci, perfettamente asemiche, quasi come esercizi coreutici e, talora, persino ginnastici che non ‘segnificano’ altro che se stessi: una sequela di movimenti che finiscono per essere anche un po’ ripetitivi, perché il repertorio gestuale del corpo umano non è infinito, alla lunga si dà per minimi scarti e varianti; e quindi concludendo con una, un po’ banale, corsa in tondo. Chi è il “superstite” qui, ossia che cosa sopravviva in un simile assolo non è dato capire. Chiunque può vederci o non vederci ciò che vuole.

Uscendo dal teatro, mi sono improvvisamente ricordato che quasi quattro decadi fa, nel 1982, ebbi la buona ventura di assistere a Calore di Enzo Cosimi, reputato il primo vero esempio di teatrodanza italiano. C’era allora, appunto, il calore e colore e vigore ed energia e fantasia gay e sexy del ventenne Cosimi, fresco reduce da una ‘full immersion’ nella postmodern dance newyorkese. In quella danza tutto fluiva ritmicamente e musicalmente e ci trasmetteva un forte senso di vita e di desiderio. Nella danza di Guarino si percepisce un algore meccanico, una mancanza di vera vita. E la tecnica coreutica da sola non basta a risollevare il morale dello spettatore.

 

 

 

 

 

 

 

 

Fratelli Mancuso ► Il 26 dicembre u. s. nella splendida Basilica dell’Ara Coeli al Campidoglio di Roma (ristrutturata nel Dugento dai francescani), il musicista e compositore Luigi Cinque, uno dei precursori in Italia della ‘world music’, ha tenuto la ventiquattresima edizione del Concerto di S. Stefano, un appuntamento oramai tradizionale per i cittadini capitolini, un rito laico e sacrale assieme che offre sempre un prezioso e coinvolgente campione di musiche del mondo. Idem quest’anno grazie alle vibranti voci di Urna Chagtar Tugki (una cantante mongolo-tedesca vagamente somigliante a Yoko Ono mezzo secolo fa) e Ludovica Manzo (vocalist jazz), più il medesimo band leader con i valenti musicisti Gabriele Coen (sax), Giovanna Famulari (violoncello), Stefano Saletti, Ettore Fioravanti (percussioni) e altri ancora.

Ma chi si è letteralmente preso la scena sono stati i Fratelli Mancuso, superlativa coppia di cantanti siciliani la cui phoné binaria appena si è sprigionata ha riempito la chiesa di suoni arcaici, ipnotici, colmi di lontani echi arabi, come il canto di un ispirato muezzin rifrullato in quel di Sutera (il loro paesino di origine, in provincia di Caltanissetta). Ora cantando a cappella abbracciati l’uno all’altro, ora accompagnandosi con la chitarra, l’harmonium e l’ocarina, Enzo e Lorenzo Mancuso (una coppia di ex emigranti e operai di mezz’età, stempiati, con la barba brizzolata, la pancetta e l’aspetto dimesso) realizzano quasi il prodigio di una evocazione musicale che giunge da un’altra dimensione spaziotemporale, in cui la voce umana si trasfonde realmente nel mistico, ossia riesce ad unire il respiro profondo della terra con le altezze del divino. Personalmente, li ho ascoltati più volte e ogni volta è un’esperienza diversa e toccante, come quando si ascolta il canto dei monaci tibetani simile a un fluente brontolio sacro o si guardano i dervisci rotanti girare su se stessi in senso antiorario per una danza estatica che pur’essa vuole simboleggiare il legame necessario tra la terra e il cielo. La medesima necessità espressiva e spirituale che ritrovo e percepisco nel canto del duo Mancuso.    

           

 

“Senza Storia” ►  “… la critica dovrebbe essere dichiaratamente personale. Alla fine un critico può solo dire: ‘Mi piace’ o ‘Mi commuove’, o qualcosa del genere. Quando egli ci ha rivelato se stesso, noi siamo in grado di capirlo”. Questa citazione di Ezra Pound è posta in esergo al saggio “La letteratura, Horcynus Orca, l’amicizia” che chiude il libro di Stefano Lanuzza Senza Storia – ’900 e contemporanei della Letteratura italiana (Oèdipus, 2021). Ed è una citazione-chiave, direi strategica per farci capire meglio chi è lo scrittore-critico messinese, a partire dall’appassionato scritto dedicato a Stefano D’Arrigo, a cui lo hanno legato una lunga, intensa amicizia e anni di studi e approfondimenti riguardanti il suo romanzo-mondo, un capolavoro assoluto della letteratura novecentesca e tuttavia riguardato talora con sospetto da certa critica accademica e, comunque, collocato in una postazione defilata, periferica rispetto al canone dominante, oggi abbassato sino al corrivo e corrente story-telling della kakoliteratur.

Ecco la ponderosa raccolta di saggi ed articoli di Lanuzza, illustre collaboratore di “L’Age d’Or”, è un salutare contravveleno di intelligenza, sapienza e autorevolezza critica rispetto allo scenario letterario attuale. È un volume volutamente dis-organico, nel senso del corpo ‘senza organi’ di Artaud, ossia un corpus critico che senza pretendersi ‘storicamente’ esaustivo, traccia in ogni caso una ramificata, diacronica mappa delle sue predilezioni letterarie che sono in parecchi casi scoperte cognitive, recuperi, rinvenimenti di autori obliati, per configurare una preziosa cartografia di figure eterodosse, irregolari, singolari, appartate, seguendo il filo di una ricerca sempre votata a testare la tenuta e lo spessore linguistici e stilistici degli scrittori e delle opere prese, di volta in volta, in esame.

Assieme a D’Arrigo è certamente privilegiato lo sguardo che Lanuzza rivolge ai letterati siciliani suoi conterranei, dai molto famosi (e assai difformi) Sciascia e Camilleri, ai quasi ignoti come l’espressionistico poeta Giovanni Torres La Torre, sino ad una riconsiderazione di Salvatore Quasimodo, il poeta e ottimo traduttore dei lirici greci, nativo di Modica, Premio Nobel 1959, quasi ingiuriato in patria dalla casta dei bonzi delle Belle Lettere che si sentivano pressoché offesi o ridicolmente ‘derubati’.

Personalmente mi sono particolarmente piaciuti i saggi dedicati a Geno Pampaloni, assai fine ed acuto maestro di ‘critica militante’, per lo più sottostimato forse perché non appartenente al ‘giro’ accademico-sinistrese e del tutto alieno al gergo ‘critichese’ prevalente; e poi a Ferruccio Masini, grande germanista, valente esegeta e traduttore di Friedrich Nietzsche, ma anche colto, potente, sofo-esistenziale poeta in proprio come attestano le accurate analisi dei suoi libri da parte di Lanuzza, di contro al fatto che non vi è una sola antologia della nostrana poesia novecentesca che lo contempli. (Masini, peraltro, con Lanuzza aveva dato vita, al principio del 1988, alla importante rivista “Molloy” poco prima di morire appena sessantenne proprio il 7 luglio di quell’anno).

Tantissimo altro, naturalmente, si può (si deve) leggere in Senza Storia (titolo che potrebbe anche far pensare ad un gergale e ironico “poche storie!”) – dalla questione delle scritture in dialetto ai dandy e ai dandysmi (con la figura araldica in primo piano di Tommaso Landolfi), etc. etc. – ma principalmente questo libro è un ulteriore tassello di autobiografia intellettuale, per interposti autori, da parte di uno degli ultimi, veri critici militanti tuttora circolanti e resilienti nell’Italia del terzo millennio. Che andrebbero, perciò, raccomandati al WWF come specie da proteggere.                   

    

“Nel continuo paesaggio” ► Viaggiando qui e là nel BelPaese, transitando nella penisola ‘profonda’ andando quasi alla deriva, sono venuti pressoché da soli i seguenti versi: 

Procedo indolente nel paesaggio proto-italico

Ora raffermo ora in movimento: appaiono

Vecchi castelli, monasteri, rovine classiche,

Cinte di antiche mura, conventi, torri medievali

Corsi d’acqua, stagni, fiumi, laghi e canali,

Prati, alture, boschi, pascoli, vigneti,

Foreste, orti, campi coltivati, uliveti e frutteti,

Botri, fossi, valli, colline, giardini floreali

Strade bianche, sentieri, bivi, trivi, quadrivi,

Ponti e ponticelli, desolate case coloniche,

Slabbrati insediamenti urbani, borghi,

Acquedotti, abusi edilizi, architetture informi

Vulcani, radiose marine, spiagge petrose,

Macchie mediterranee, scogliere, dune sabbiose

Sul filo dell’orizzonte tramonti nuvolosi

Nel continuo del paesaggio rovi spinosi

Gli occhi si riposano, infine,

contemplando il mistero della natura

o forse è la natura del mistero

che impassibile contempla noi. 

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