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SIMO PROVELE E OMBRA, SQUIZZO

DE LUCE

di Rino Caruso

Non deve stupire né ingannare la tonalità malinconica di questa raccolta poetica di Pietro Vitelli. Certo, risalta il senso acuto della fuga irreparabile del tempo, come la pena per la disgregazione inarrestabile del mondo affettivo, familiare e amicale circostante. Basterebbe, da solo, il titolo dell’opera, ripreso da un componimento eponimo inserito quasi al centro del libro, per contenere, ed esaurire, lo sguardo partecipe quanto mesto dell’Autore sulla propria esperienza di vita, così come si riflette, altresì, nell’esito caduco dei contesti del suo mondo interiore ed esteriore.

Ciò sembra essere confermato dalla propensione di Vitelli a una sorta di metalinguaggio poetico che effonde la sua virtualità “colta” nella ripresa dei modelli classici e nelle traduzioni dalle varie lingue dei poeti contemporanei, soprattutto novecenteschi. Si può affermare, anzi, che Vitelli elabora una sorta di catalogo degli antecessori, quasi un vero e proprio canone della poesia che lo ha ispirato, dai maggiori esiti della tradizione illustre della poesia italiana fino ai migliori rappresentanti dell’attività poetica della cultura euroccidentale: da Saffo a Orazio, da Dante a Leopardi, da Dickinson a Ferlinghetti, da Neruda a Szimborska, solo per citare alcuni esemplari riscontri.

A tutto ciò va aggiunto il ricorso a un metro “tradizionale”, pur trasferito dall’ambiente della penisola italiana, nei secoli, all’intera poesia europea, fino alla nostra contemporaneità, come il sonetto, manovrato da Vitelli con duttilità ormai esperta che circonda ed esalta, proprio per la sua maggioritaria frequenza, le gemme incastonate di alcuni Haiku e di altri componimenti in italiano nazionale.

In tal modo, insomma, resterebbe ancora poco da dire, assicurata e accettata la raffinata elaborazione del tutto che attinge, talora, una sua perfino compiaciuta sofisticata consapevolezza.

Ma la poesia di Vitelli nasce proprio dalla sedimentazione di tutta questa sua precedente materia. Perché Vitelli è di Cori e, pur praticando correntemente l’espressione artistica in italiano, ha parimenti usato da sempre in letteratura la sua madrelingua locale, il Corese, in poesia come, in particolare, in prosa, anni fa, nel bel romanzo Fiorina, tra i pochissimi casi di diffusione diretta di un’opera in dialetto nell’ambiente anglofono nordamericano, specialmente canadese.

Il Corese, pur nobilitato già prima di Vitelli da esiti poetici di rilievo (un nome per tutti, Chiominto), ha però ricevuto dal nostro Autore dignità di lingua attraverso una tenace e proficua attività di raccolta lessicografica e semantica che ha portato, oltre che alla dotazione arricchita dei propri strumenti poietici, alla definizione di un vero e proprio vocabolario corese. E, si sa, dove emerge la poesia e un vocabolario, lì c’è e rimane una Lingua.

È quindi il Dialetto, la “lingua degli avi”, la risorsa salvifica di Vitelli, che riabilita il magma vasto della cultura poetica dell’Autore e della sua competenza tecnica di abile versificatore, al fine di raggiungere la cifra più autentica dello Stile.

In tale direzione, come già si diceva, la stessa memoria poetica dei grandi modelli viene ricreata originalmente. Si pensi, esemplarmente, all’efficace traduzione in Corese di una tematica precipuamente leopardiana come “zitta zitta lluma la luna” che, tuttavia, proprio nella pregnanza della forma dialettale, recupera la sequenza che già era presente a Leopardi; e dunque Saffo, originariamente, e i poeti latini, Orazio, ma anche Virgilio, e così via.

La poesia di Vitelli, allora, andrà individuata proprio nella capacità del poeta corese di fissare in bozzetti di vita umana e naturale i momenti salienti dell’esistenza. E mentre lo spazio è volutamente racchiuso nella cinta cittadina, il tempo viene dilatato a comprendere il passato con la sua memoria (auto)biografica e, soprattutto, l’immediata contemporaneità: “poesie della quarantena”, si potrebbero definire queste del libro di Vitelli, proprio perché, pur nate alcune in fasi diverse, sono per lo più addensate nella corrente e spesso struggente pandemia, prima che si profili una pur probabile e, forse, imminente via di uscita. Davvero uno “squizzo de luce”!

Sicché non si può che augurare al pluriottantenne Autore e al suo neonato Libro la stessa rasserenata aspettativa sprigionata dal bell’endecasillabo “Me vaglio preparènno lèmme lèmme”.

Ovvero: Ars longa, Vita (non) brevis!

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