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Le Parole tra noi

NARRATORI ITALIANI DEL DUEMILA

 

di Luigi Matt

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È uscito da poco il volume Narratori italiani del Duemila. Scritti di stilistica militante (Milano, Meltemi, 2021) di Luigi Matt. Il volume riporta le letture di circa ottanta romanzi dell’ultimo ventennio, precedute da riflessioni sullo statuto della critica. Vi si pratica una stilistica militante: i giudizi di valore di volta in volta espressi sono fondati su ricognizioni formali dei testi, nella convinzione che quella dello stile possa essere una chiave di accesso privilegiata, utile a capire meglio anche gli aspetti tematici. Particolare impegno viene messo nella segnalazione di opere prime meritevoli, magari poco visibili, che è uno dei compiti più importanti che la critica militante possa svolgere. In altre occasioni, invece, si mostrano i limiti di romanzi mediocri o addirittura pessimi di scrittori di successo, operazione che ha una precisa funzione “ecologica”. Viene molto valorizzata la prosa che esorbita dall’italiano medio, in ogni direzione possibile. Il consenso però va anche alle scritture che usano efficacemente la medietà espressiva come strumento adatto a determinati scopi di rappresentazione del mondo. 

Si riportano alcune pagine dedicate al romanzo di esordio di una scrittrice interessante, Angela Bubba.

 

 

Con La casa di Angela Bubba (Elliot 2009) ci si addentra nei territori del plurilinguismo, negli ultimi decenni assai poco frequentati. La prosa lussureggiante che la giovane autrice offre al lettore, dando prova di un controllo sugli strumenti formali già pienamente maturo, inviterebbe a un’analisi ampia e particolareggiata che in questa sede non è possibile fornire. Quelle che si cercherà di mettere in luce in maniera inevitabilmente schematica sono solo alcune delle molte peculiarità stilistiche di un romanzo che concede poco alle istanze della narratività per privilegiare le ragioni della rappresentazione. Nell’economia del testo contano non tanto i pochi avvenimenti raccontati quanto la resa complessa e sfaccettata di un ambiente, quello di una famiglia calabrese di una cinquantina d’anni fa, un microcosmo popolare non ancora toccato dalla modernità, in cui si muovono personaggi dominati da passioni violente e pulsioni primordiali.

La caratteristica linguistica che per prima si impone allo sguardo del lettore è senza dubbio la fitta presenza di parole estranee all’italiano comune: non c’è pagina che non ne ospiti qualcuna. Per arricchire la propria raccolta di lessico raro, l’autrice sfrutta serbatoi diversi. Una componente importante è quella delle voci desuete, tra le quali alcune vengono recuperate dalla grande tradizione letteraria, come affocati, guatandosi, rattenendola; mentre in altri casi si tratta di arcaismi rari, come disvolata, lustrore, tramescolio. Presente ma non frequentissimo, contrariamente a quanto affermato in alcune recensioni, è il lessico dialettale, che può manifestarsi in forme note in tutta Italia, come travagliando ‘lavorando’, o viceversa con parole più specificamente locali, come divacava ‘vuotava’.

L’autrice, soprattutto, dà fondo alle risorse di un’inventiva neologica non comune: quello delle neoformazioni è il contingente di parole marcate di gran lunga più numeroso. Solo nelle prime pagine si incontrano tra l’altro gondolarle ‘dare forma di gondola’, incarmigliato ‘pettinato’, spadronati ‘ingestibili’, a strozzagallina ‘con voce stridula e acuta’. Molte le parole rare utilizzate in modo personale, sia dal punto di vista morfologico, come il verbo spincionare ‘ciarlare’ trattato come un transitivo (“a spincionarsi chissà quali malagrazie nelle bocche”, p. 11), sia da quello semantico, come bordellare, arcaismo assunto non nel significato di ‘prostituirsi in un bordello’, ma in quello di ‘fare confusione e baccano’ (“le donne vociavano di questo e di quest’altro [...]. Oh che andassero, andassero a bordellare in un’altra casa”, p. 15).

La carica espressiva può essere innescata dall’accostamento di forme di diversa origine e connotazione, come nel sintagma serti luccicosi, in cui a un sostantivo di nobile letterarietà si lega un attributo di recente ingresso in italiano, e proprio di un registro colloquiale. Inoltre, va detto che sono molti i passi in cui la densità di parole non comuni diventa particolarmente forte, come il seguente:

 

Il marito intanto, non finiva di parlottolare. Brutalmente trabalzava la lingua, come qualcosa di selvatico e d’irreprimibile. Le rombeggiava nella testa la smania di quello, purissima, l’intento a non malcelare la sua passione, baccagliava con ancora più cipiglio, anzi (p. 74).

 

Nel brano appena citato, la deformazione stilistica serve a rendere in ogni sfumatura il modo di parlare di un personaggio. Non si tratta di un caso isolato; al contrario, si può dire che l’attenzione per questo aspetto costituisce una vera e propria ossessione della voce narrante. Com’è perfettamente coerente in un romanzo in cui non di rado più che le azioni compiute contano le cose dette, i dialoghi sono spessissimo accompagnati da didascalie che hanno la funzione di dar conto degli innumerevoli modi possibili per pronunciare una frase, spesso altrettanto o più importanti di ciò che si dice. Il catalogo dei verba dicendi (spesso precisati da espressioni modali) si ampia allora a dismisura; “ecco ciò che si può rintracciare in poche pagine: sputava ora quella, sbraitando come una cagna presa col nervo” (p. 15); “mugolò poi, mangiandosi la mezza frase” (p. 15); “ruggiva la donna nel suo governo focoso” (p. 17); “ululava nella gelata” (p. 18); “spiritò la Lia” (p. 18); “squittì con gli occhi bassi Anselmo” (p. 18); “alitava tra i baffi infreddoliti” (p. 19); “sentenziò duramente” (p. 19); “si masticò fra i labbri Anselmo” (p. 20); “brulicò pure Annina” (p. 20); “menava ancora l’uomo nel suo trotto incurabile” (p. 20); “stridette ancora l’omone dal fondo della sua strozza lardosa” (p. 21); “irruppe Pina con voce di gatta” (p. 21); “continuò tostigna Pina” (p. 21); “buttava annervata l’altra” (p. 22); “sanguinava Pina” (p. 23); “scornò contro il figlio” (p. 26); “abbaiò Benio” (p. 26); “spiccicò l’uomo, il mosto fin nelle ciglia” (p. 28); “si sbottonò nei labbri Anselmo” (p. 29).

Un fenomeno di questo tipo testimonia di una netta distanza tra il piano del narratore e quello dei personaggi. Si tratta però di una situazione tutt’altro che costante nel romanzo, in cui anzi è molto frequente l’uso di un discorso indiretto libero portato alle estreme conseguenze, in cui le voci dei personaggi risaltano con vividezza per mezzo di moduli propri del parlato enfatico come le topicalizzazioni, le ripetizioni, le esclamazioni e le interrogative dirette: “era nato uno, e quindi? Il cappello voleva? Pure lui, beato beato! Un altro mese non lo poteva prendere?” (p. 20); “Assente non poteva neanche starci poi, ecco cosa gli combinava! Alla casa c’invitavano gli spiriti, quelle! Lo sapeva, lo sapeva. E le altre figlie sue, quelle discioperate, gliele avevano pure scasate. Ah, diavolo! Ah, demonio!” (p. 49); “E che era? Che era? Voleva fare il nascosto? Ah, la Veronica piangente!” (p. 120); “Ma pure vedeva che Aurora non si smoveva, che lei, no!, no per tutti i gigli dei santi!, lei non se n’andava” (p. 183); “Dove andava? Che faceva? Ma nulla, nulla! Non faceva mai nulla! Ed era questo lo sbaglio suo, quello che non lo sanava mai, era questo!” (p. 200); “Era indecente, davvero, davvero! Che quei gusci di vino se ne venissero fuori tanto malati. E perché, perché poi? Mai, mai era accaduto” (p. 233).

Ma in realtà è impossibile schematizzare la gestione del punto di vista nel romanzo, data la fortissima instabilità. Tra i due estremi della lingua ipercolta del narratore e quella iperpopolare dei personaggi la narrazione si muove incessantemente. Inoltre, come in ogni testo improntato a una plurivocità complessa, i vari piani non solo si alternano, ma bene spesso si intrecciano in modo tale che nella stessa frase possono facilmente essere percepibili due prospettive completamente diverse. Basti un esempio: “Attendeva che quell’immanenza accadesse, che la manifestazione sua venisse, venisse sì! La voleva, la voleva” (p. 74). È evidente che qui all’inizio la voce è quella del narratore, a cui solo può essere attribuito un termine del linguaggio intellettuale come immanenza, mentre alla fine l’esclamazione e la ripetizione appartengono al personaggio; ma un’espressione come la manifestazione sua è un ircocervo, dato che il sostantivo, certo estraneo all’uso di un semicolto, è seguito e non preceduto dal possessivo, secondo un tipico modulo degli italiani regionali centromeridionali.

La convivenza di elementi appartenenti a registri opposti, con tutto il carico di effetti stilistici che ciò comporta, è la norma nella Casa. Solo sporadicamente si dà vita a passi, mai comunque di ampia estensione, in cui predomina nettamente una delle componenti, come nel seguente attacco di capitolo, uniformato a un tono lirico:

 

Pioveva, il mattino appresso. E un freddo nuovo, chiaro e pulito, grandeggiava.

L’acqua sgrondava leggera, polvere sparsa sopra vasti tappeti. E la buttavano i cieli come tristi gemme, come ori seminati nel tramonto dei piovaschi.

Senza affanno. Svaporava via dalla lana opaca delle nuvole dolcemente. Muta.

La Lia la sentiva sciogliersi oltre le lastre della sua camera, su cui i panneggi srotolati delle tende morivano pesantemente. Ne immaginava il corso impaurito che costruivano sul vetro allora, il loro spingersi, il loro ritrarsi. Sotto, gli sbuffi delle brezze.

Le pareva infinito quel tempo, sospeso oltre ogni dire.

Un lieve scroscio, e il silenzio. Una ruota, un frullio, un tremare di antichi notturni, e poi di nuovo, poi la quiete.

La Lia si contava nel cuore quei rumori, con morbida serenità. Non v’era nulla altro a cui pensare. Perché, perché dover pensare ad altro poi? Da poco si era svegliata, trovandosi sola nel suo letto da matrimonio (p. 113).

 

Una qualità che spesso si ritrova negli scrittori inclini all’espressivismo è l’attenzione ai dettagli, che può facilmente giovarsi di un’ampia tavolozza linguistica, da cui prelevare di volta in volta gli elementi più adatti alla bisogna. Bubba non fa eccezione, come si vede da alcune descrizioni molto particolareggiate: “trafficando non poco ora con quelle sue scarpacce di corda, quelle sfilacciate e quasi informi ormai, intartarate d’erbacce” (p. 68); “Stava stretto in uno degli ultimi sedili: un piccolo vano senza più pelle ormai, ridotto a sfilacci e lingue stoppose, e con l’intera spugna smollicata in terra” (p. 149); “Tutt’intorno a quegli orli spumavano delle minute e bianche uve. Erano molte, acquose e dolci, che sgrondavano verso il basso. Da certe parti poi si scorgevano i raspi, magri e scuri, scucirsi in nudi fili più chiari” (p. 209).

È soprattutto nell’osservazione delle persone che lo sguardo della voce narrante si fa attentissimo, pronto a cogliere specialmente i particolari grotteschi, spesso tratteggiati attingendo a una vasta gamma di immagini figurate: “A tali pronunce quella s’infuocò più della paglia d’agosto; un alito incandescente, maligno, le sventolava da dente a dente, e un guardare, che non era cosa da uomo cristiano, le scorticava amaramente la vista” (p. 44); “Mandava ora delle spirate sofferte, che s’infrangevano nella sua bocca come può fare una mano d’onda sul dorso dei faraglioni” (p. 75); “Assuntina sgranò delle occhiate che non avevano più sangue, spallidite ma immense, immense. L’iridi, diventatele dure, pietose [...], le rullavano a scatti da una banda all’altra” (p. 84); “Scoccava delle umide dardate all’intorno, leste, piccole; le guance le tremavano e la rete di pelle posta sopra la fronte si contorceva con spasimo” (p. 159); “Un poco di luce le baluginava sopra tutta la lunghezza del profilo. Ma la testa stava coperta, i capelli sudati di pianto frondeggiavano ampiamente sopra la fronte” (p. 196).

Per concludere, merita di essere ricordato almeno un altro aspetto della prosa di Bubba, la ricchezza dell’aggettivazione, che si esplica in particolare nei frequenti passi in cui si accostano più forme, mettendole in risalto attraverso la posizione all’interno della frase o per mezzo di soluzioni interpuntive: “una madre malata, triste. Vecchia” (p. 23); “si batteva la carne, impietosa, ultima” (p. 52); “all’affermazione bellissima della crudezza, aspra, verace” (p. 76); “un tale moto emotivo, imprevisto quanto sincero, indomito” (p. 84); “si snebbiavano il sangue a quella vista. Ampia, dolorosa” (p. 132); “come un immenso rumoroso svolazzo” (p. 168); “gli ampi, terrei scenari, moribondi e ultimi” (p. 216); “che ogni situazione fosse sempre, e onestamente, ben celata, salva, sacra” (p. 231).

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