Anno VIII - Numero 1/2022
TERRITORIO, PARTECIPAZIONE
E FORMAZIONE ALLA DEMOCRAZIA
di Gennaro Lopez
“Se si vuole che la democrazia prima si faccia e poi si mantenga e si perfezioni, si può dire che la scuola a lungo andare è più importante del Parlamento e della Magistratura e della Corte costituzionale” (P. Calamandrei)
Nei mesi scorsi il tema del rapporto tra scuola e territorio è stato ampiamente e ripetutamente affrontato, sia pure da angolazioni diverse, su vari organi di stampa. Alla ricca e consistente elaborazione acquisita aggiungiamo qui qualche riflessione su come tale rapporto possa concorrere, attraverso meccanismi e strumenti di partecipazione, alla formazione di una cittadinanza democratica. Parliamo, appunto e non a caso, di “formazione”, qualcosa di diverso dalla “educazione” alla democrazia, qualcosa che ha a che vedere con la formazione delle classi dirigenti e con l’educazione al “politico”, cioè all’esercizio di diritti/doveri da parte del cittadino consapevole e capace di giudizio critico. Com’è noto, non esiste una sola idea di democrazia e occorrerebbe parlare di democrazie, al plurale. La distinzione più frequente è tra una concezione “rappresentativa” (i cittadini agiscono per delega) e una concezione “partecipativa” (cittadinanza attiva). Ovviamente qui si fa riferimento a questa seconda idea di democrazia. Il dibattito pedagogico poi, non da oggi, ha identificato la differenza tra la democrazia formale e quella sostanziale, proponendo il superamento del rapporto di pura delega che separa il civile dal politico.
Abbiamo più volte ribadito il valore costituzionale della scuola: non mero “servizio pubblico”, ma istituzione dello Stato, preposta alla crescita culturale, civile e democratica della collettività. Ora affermiamo, con ancora più nettezza, che la scuola è per sua natura e di fatto, un luogo “politico”, sia per quanto riguarda la trasmissione di strumenti indispensabili per vivere nella società, sia nella formazione di un habitus democratico, sia per il ruolo di compensazione e livellamento delle differenze sociali (il cosiddetto “ascensore sociale”). Esattamente da ciò discende la necessità di attribuire alla scuola il coordinamento, la regia, lo stimolo di tutte quelle attività educative e formative riguardanti il territorio, che possano rientrare in un progetto volto, appunto, alla formazione e alla crescita di una cittadinanza democratica e consapevole. Altrimenti, come purtroppo constatiamo, non ci si attrezza a fronteggiare adeguatamente un’evidente emergenza, in preoccupante espansione, che è, al tempo stesso, educativa e democratica. Lo strumento dei “patti educativi di comunità”, può rivelarsi senz’altro utile, se orientato a sollecitare il più ampio coinvolgimento e la partecipazione attiva delle realtà (non solo istituzionali) presenti sul territorio. Potrebbero derivarne benefici effetti anche sul piano della didattica, per esempio a vantaggio del tempo-scuola, superando ogni logica utilitaristica del cosiddetto “tempo pieno”, per non dire che le competenze relative all’educazione civica e alla cittadinanza attiva maturerebbero in un contesto idoneo ad attribuire un senso immediato (“non mediato”) a norme e valori altrimenti vissuti dai discenti come astratti e distanti.
A questo punto, si impone la domanda: la nostra scuola è preparata ad assumersi la responsabilità di un compito, di una funzione di tale delicatezza e rilevanza?
In un saggio del 2005 intitolato Imparare la democrazia, Gustavo Zagrebelsky sosteneva che “un’autentica pedagogia democratica è mancata e l’educazione civica non ha mai preteso di essere molto di più che un’informazione sommaria sulle istituzioni mentre, dove ha tentato di andare oltre, in appoggio della democrazia, è stata più un’apologetica e una propaganda che non una pedagogia […] nella migliore delle ipotesi, è prevalso un luogo comune dell’ideologia democratica: che sia necessario e sufficiente diffondere i diritti di partecipazione – i diritti politici e, innanzitutto, il diritto di voto – affinché lo spirito democratico si radichi […]. Il problema dell’insegnamento della democrazia è qui, nell’identificazione e nella specificazione dell’ethos che le corrisponde. […] La domanda è se si possa insegnare non la democrazia ma l’adesione alla democrazia: se si possa insegnare non che cosa è la democrazia ma ad essere democratici, cioè ad assumere nella propria condotta la democrazia come ideale, come virtù da onorare e tradurre in pratica. Più in generale e in breve, si tratta di sapere se gli ideali, le virtù, e in particolare la virtù politica, si possano insegnare oppure no”.
Da parte nostra restiamo convinti (rifacendoci a Dewey) che democrazia e educazione stanno tra loro in un rapporto molto stretto, nel senso che la scuola è uno strumento della democrazia e quest’ultima non può sopravvivere e prosperare senza quella.
La democrazia è, peraltro, un “modo di essere cittadini”, che deve e sa misurarsi costantemente con i problemi del mondo contemporaneo. Ecco perché gli insegnanti hanno, tra gli altri compiti, quello di portare gli studenti a conoscenza dei temi che attraversano una società in continuo mutamento: emergenza climatica, biodiversità, lotta al razzismo e alle discriminazioni di ogni tipo sono oggi argomenti ineludibili per l’educazione ad una cittadinanza globale. Inoltre, nel nuovo contesto multiculturale la cittadinanza andrà declinata non più in termini di mera difesa dell’identità e dell’appartenenza, ma quale momento di integrazione ed inclusione sociale.
Per noi l’ethos della democrazia risiede nei valori della nostra Costituzione, in virtù dei quali la cittadinanza tende a configurarsi quale forma giuridica di una relazione “sostanziale” tra la persona e la comunità: la cittadinanza è una condizione sociale prima che giuridica e non può, dunque, risolversi in una mera rivendicazione di diritti. La dimensione personale dei diritti andrà sempre collegata alla dimensione solidale e responsabile dei doveri.
Sta dunque in questa relazione tra singola persona e comunità il valore educativo ed etico di tutto ciò che poniamo sotto l’etichetta del “rapporto tra scuola e territorio”. La traduzione operativa di questo valore verrà individuata nel momento in cui si concepirà la partecipazione democratica come oggetto specifico di formazione e, prima ancora, come risorsa irrinunciabile della scuola della Repubblica. Insisto sul rapporto tra formazione alla partecipazione e democrazia perché considero la partecipazione un elemento fondamentale della stessa stabilità democratica. Da qui l’importanza di riflettere su alcune questioni, quali, ad esempio, la funzione della partecipazione nello sviluppo sostenibile. Abbiamo visto come i giovani siano portati a prendere molto sul serio gli effetti prodotti dalle azioni degli esseri umani sul sistema Terra o sulle iniquità sociali vissute nella sfera più intima o percepite a livello globale. D’altra parte, però, pensiamo a quanti stimoli quotidiani ci portano ad agire e pensare in termini di consumismo, quanti messaggi rafforzino l’illusione di una felicità raggiungibile solo attraverso l’acquisto di prodotti e servizi. La cultura dominante riesce a metabolizzare anche le più radicali istanze ambientaliste, ecologiste. Questo per dire che un’educazione alla partecipazione deve risultare applicabile al mondo reale (quindi al territorio o, se si preferisce, al contesto), scontando tutte le sue contraddizioni e misurandosi concretamente con esse, uscendo cioè dalla sola dimensione teorica e tradizionalmente scolastica. Come afferma il rapporto della Commissione europea sull’Apprendimento della cittadinanza attiva, occorre dare i mezzi per gestire la cultura democratica e creare, attraverso le dimensioni “affettive” della cittadinanza, l’interesse a partecipare.
In linea generale, occorre promuovere esperienze dirette a favorire la costruzione del senso di appartenenza al territorio in cui si vive o si opera attraverso lo stimolo alla discussione e al confronto per risolvere i problemi, favorendo la comunicazione tra i gruppi sociali, la mediazione dei conflitti esistenti ed il superamento della visione esclusiva degli interessi "di parte" per arrivare alla determinazione di un "interesse comune". L’indebolimento del legame sociale è influenzato soprattutto dalla povertà, dalle crescenti ineguaglianze, dalla disoccupazione. La scuola può svolgere un ruolo promuovendo interventi volti all’inclusione; ma tali interventi vanno creati, costruiti. Strumenti come il bilancio sociale, la convivenza della comunità scolastica improntata a pluralismo, laicità, interculturalità, l’adozione di metodi pedagogico-didattici come il service-learning, possono rappresentare altrettanti pilastri di un’istituzione scolastica che intenda promuovere inclusione e partecipazione, cioè “fare democrazia”. Perché è nella scuola che si acquisiscono competenze, strumenti, abitudini, stili di vita come necessari prerequisiti alla partecipazione. Creare all’interno dell’istituzione scolastica una cultura della partecipazione richiede, in ogni caso, un processo lungo e un investimento di tempo e risorse; andranno messi nel conto anche passaggi conflittuali e, in ogni caso, una scuola che si assuma un simile impegno, potrà sviluppare pienamente le sue potenzialità educative solo se inserita in un contesto istituzionale e socio-economico che sia in grado di recepirne, apprezzarne e condividerne gli obiettivi pedagogici. Esempi virtuosi non sono mancati, da questo punto di vista. Cito per tutti la promozione di una specifica “formazione alla partecipazione”, ai processi decisionali pubblici, ad opera, dal legislatore regionale della Toscana che nell’adottare la legge regionale n. 69 del 2007 recante “norme sulla promozione della partecipazione alla elaborazione delle politiche regionali e locali”, si è preoccupato di prevedere attività di formazione a supporto dei processi partecipativi, finalizzate alla promozione della cultura civica e della partecipazione (specialmente tra le nuove generazioni), con la diffusione della conoscenza delle tecniche partecipative.
Ma se adottiamo uno sguardo panoramico sulla situazione attuale, va detto che il crescente astensionismo elettorale, accanto ad altri fenomeni di vero e proprio “analfabetismo civico”, segnala per la nostra democrazia uno stato di salute che ci deve molto preoccupare. L’epoca di una partecipazione “veicolata” da corpi intermedi quali partiti e sindacati è definitivamente tramontata; ora assistiamo ad una partecipazione fluttuante o “liquida”, che può certo presentare momenti positivi (è il caso, ad esempio, del movimento delle “Sardine” o dei movimenti studenteschi che fanno riferimento alla figura di Greta Thunberg), ma può anche facilmente degenerare (l’abbiamo visto in Italia e all’estero) in fenomeni eversivi che nulla hanno a che vedere con la democrazia.
Si tratta di considerazioni che valgono anche (e forse soprattutto) quando le pratiche partecipative sono veicolate attraverso il canale telematico. In tal caso bisogna non solo assicurare l’accesso allo strumento e la relativa alfabetizzazione, ma formare alla e-democracy. Peraltro, non bisogna trascurare il fatto che l’utilizzazione (o la preferenza) di un unico canale comunicativo-partecipativo può risolversi in un fattore di esclusione: la democrazia partecipativa necessita di una pluralità di soluzioni tecnologiche ed organizzative che garantiscano la più ampia apertura e partecipazione. L’esperienza della DAD ci ha dimostrato, infatti, che il ricorso alla didattica a distanza come soluzione unica di partecipazione alle attività di insegnamento/apprendimento abbia provocato diffusi fenomeni di emarginazione e dispersione.
Gli argomenti su cui mi sono soffermato rendono necessaria qualche considerazione finale a proposito dell’insegnamento dell’Educazione civica, che può rappresentare uno dei “motori” di attivazione di quel rapporto tra scuola e territorio finalizzato ad una cittadinanza attiva, consapevole, democratica e, aggiungo, europea.
I riferimenti normativi sono alla Legge 20 agosto 2019, n. 92 (“Introduzione dell’insegnamento scolastico dell’educazione civica”) Le Linee guida di questo insegnamento si sviluppano intorno a tre nuclei concettuali, che qui richiamo sinteticamente: a) la Costituzione della Repubblica, connessa all’educazione alla legalità e alla solidarietà; b) lo sviluppo sostenibile, connesso all’educazione ambientale; c) la cittadinanza digitale. L’obiettivo è dunque quello di ispirare comportamenti improntati a una cittadinanza consapevole e attiva, formando cittadini capaci di agire responsabilmente e di partecipare pienamente e consapevolmente alla vita civica, culturale e sociale della comunità. È dunque evidente che un tale insegnamento esce dal ristretto ambito e dai canoni della “disciplina” classicamente e scolasticamente intesa; esso deve, invece, necessariamente svilupparsi in base al principio della trasversalità, realizzando processi di interconnessione tra saperi disciplinari ed extradisciplinari.
Una trasversalità correttamente intesa e praticata incide, ovviamente, sulle dinamiche di insegnamento e di apprendimento, aprendo spazi anche a possibili sperimentazioni, a partire da moduli interdisciplinari condivisi da più docenti: una interdisciplinarità che non corrisponda ad una mera giustapposizione di singoli insegnamenti, ma sappia realizzare un’autentica cooperazione educativa, progettando e lavorando in (per esempio attraverso una didattica laboratoriale); tali metodologie didattiche risulteranno di per sé educative, in quanto potranno trasmettere ai discenti un modello collaborativo da applicare alle loro proprie modalità di studio e di ricerca; la voglia, insomma, il desiderio di studiare, ricercare e soprattutto stare insieme, condividendo esperienze: il nocciolo duro di una società civile e democratica, che sempre più deve trovare nella scuola e nel suo modo d’essere un modello da cui trarre ispirazione.