Anno VIII - Numero 1/2022
Roma, Il ramo e la foglia Edizioni, 2021
GUALBERTO ALVINO
RETHORICA NOVISSIMA
Prefazione di Francesco Muzzioli
di Alfonso Lentini
La scrittura di Gualberto Alvino è difficile. Certo, questa perentoria affermazione non è un inizio accattivante per una nota che si propone di avvicinare il lettore a un libro. Articolando il discorso, però, spero di riuscire lo stesso nell’intento, tanto più che il lettore di cui si va alla ricerca nel nostro caso non è il lettore medio che dai libri si aspetta gratificazioni immediate e superficiali.
Intanto va detto che la stessa figura dell’autore in questione è di non facile collocazione. Anche se forse più noto come critico, filologo e studioso della lingua (ama oltretutto avventurarsi nell’esegesi di autori linguisticamente coriacei, come ad esempio Antonio Pizzuto), Alvino è nel contempo poeta e narratore, insomma un eccellente manipolatore in proprio della parola. I due piani della sua produzione però a volte si intersecano, come (ma per via molto eccentrica) in questo Rethorica novissima, che — stando al titolo[1] e al frequente uso di termini tecnici tratti dal suo lavoro di studioso — potrebbe essere scambiato per un volume di saggistica, quando invece la materia incandescente che vi si trova è la sola e pura ricerca poetica. E poesia erotica, persino. Se filologia letteralmente significa ‘amore per la parola’, il filologo («il nostro ne converrai è lavoro da braccianti badilanti») può amare la scrittura come una donna e nel nostro caso la lingua tecnica e apparentemente fredda dello studioso può essere inglobata nella lingua poetica e in alcuni casi diventarne il nerbo («esta è bassa poetria / de maledicto philologo et huomo»). È in questo incastro alchemico di filologia e umanità che una scrittura dalla crosta “difficile” può scaldarsi e sciogliersi in lingua emozionale.
Scomposto e ricomposto, squartato e accarezzato, compresso e moltiplicato, in Rethorica novissima il linguaggio è il vero protagonista di una danza furibonda, ricca di sconnessioni semantiche e improvvise accensioni di senso. Alvino attinge infatti a una enorme gamma di materiali linguistici che vanno dal linguaggio tecnico della critica letteraria a quello mediatico-televisivo, da scelte lessicali ipercolte alle sgrammaticature della parlata super-truzza, dagli errori di scansione della “modalità OCR” a parole rare e desuete, da citazioni letterarie a frasi spezzate che si perdono nel nulla.
Attraverso questo percorso plurilinguistico e plurisemico, come sprofondando in un fondale oceanico, giungiamo alla parte centrale del libro, per così dire al suo midollo: introdotto da un piccolo atlante anatomico scritto in una lingua morta come il latino, ecco un inquietante esame autoptico su un cadavere. Usando una fluviale lingua simil-barocca (composta forse di prelievi testuali provenienti da chissà che remote letture), l’autore descrive una sorta di esplorazione chirurgica dove la natura umana viene crudamente svelata nel suo essere mera sostanza fisica. Il rigor mortis della lingua latina sembra trasmettersi al rigor mortis del cadavere sottoposto ad autopsia. Lingua e corpo tendono a somigliarsi e se per il filologo l’esame autoptico si fa sul linguaggio, allora — svelamento dopo svelamento — una possibile lettura allegorica di questi versi potrebbe far pensare che Alvino voglia anche ricordarci che l’Humanitas, cioè la natura umana più profonda stia proprio nella parola.
La lingua usata è dunque poeticamente inventiva ma non certo inventata. Simile ai collage di Magritte, questo metodo di lavoro altamente creativo rimanda ai procedimenti teorizzati in seno al Gruppo 63, quando si parlava della lingua poetica come «mimesi critica della schizofrenia universale». La parola “novissima” contenuta nel titolo richiama del resto i "Novissimi", cioè quei poeti di una famosa antologia strettamente collegata alla neoavanguardia degli anni Sessanta («un punto di non ritorno nell’evoluzione della poesia del Novecento», come giustamente nota Francesco Muzzioli nella prefazione); perciò il procedimento di Alvino va sicuramente collegato a quell’area (e penso in particolare a Balestrini). Ma si sa che le cose non stanno mai ferme, dunque se la neoavanguardia può essere in Alvino un remoto punto di partenza, il suo verseggiare segue un autonomo sviluppo dove la babelica mescolanza dei linguaggi si trasforma in un percorso personalissimo, quello che Muzzioli (sempre nella prefazione) definisce «continuum inarrestabile»: un vociare franto, una musica dissonante dove azzardi sperimentali, elaborate strutture sintattiche (monche o serpeggianti che siano), conflagrazioni di senso, possono dare luogo persino ad emersioni autobiografiche e sentimentali. Ed è in queste emersioni che il poeta come individuo può parlare anche in prima persona: «Parla, eccome — nota Muzzioli — ma, con rigore, nel luogo del soggetto organizzatore e nelle pieghe del suo intenzionale derogare nonché nella contraddizione tra materiale personale e codice pubblico, nella torsione del mal di testo e delle pulsioni espressive che lo dirompono».
Si sa che la poesia è un gioco pericoloso, un linguaggio elaborato, artificiale, complesso che si rivolge a un pubblico selezionato; e da esso «la poesia di Alvino pretende un livello alto di consapevolezza» (Muzzioli). Sta ai lettori che non si accontentano della letteratura di consumo scegliere se entrare in siffatto circuito di consapevolezza dove è certamente difficile procedere. In cambio di cosa? Certamente di un arricchimento. E questo libro, fortemente schierato a favore della poesia degna di questo nome, indica nel contempo una via di fuga, una strada per sottrarsi alle «grinfie del poetichese».
[1] Titolo anomalo per un libro firmato da un filologo notoriamente rigoroso: nella parola “Rethorica”, infatti, la H è spostata rispetto all’uso corrente (Rhetorica). Ma è un’evidente provocazione con intento giocoso e autoironico.