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Per la Critica

VIAGGIO NEL MONDO TEATRALE

DI MARCO PALLADINI

di Isabella Gaffè

[Il seguente testo critico fu redatto una decina di anni fa per un volume sull’opera teatrale di Marco Palladini che, poi, come spesso capita in un panorama editoriale in cui il teatro è assolutamente marginale, non venne più pubblicato. Lo scritto, rimasto inedito, conserva tuttavia una perspicuità e incisività e acutezza di sguardo critico assolutamente intatti ed attuali rispetto alla poetica e al lavoro per la scena dell’autore romano. In tal senso lo recuperiamo e lo proponiamo alla lettura.]         

 

 

I. Trans Palladini’s road

Di recente mi è capitato di fare un’esperienza singolare. Mi trovavo ad un festival di arti contemporanee a Nettuno (Roma), al quale partecipavano artisti che erano stati invitati a creare opere ad hoc per diverse location della città.

Uno degli artisti stava seduto nella minuscola sala d’aspetto della stazione. Una volta seduta accanto a lui, mi ha detto che mi avrebbe raccontato una storia, che mi avrebbe condotta in un viaggio dell’immaginazione e che per farlo mi avrebbe bendata. Ho acconsentito e la storia è cominciata; mentre raccontava, l’artista[1] mi portava in giro per la stazione. Dopo dieci secondi, avevo completamente perso il senso dell’orientamento. In pochi minuti ero dentro ad un mondo ignoto, popolato di personaggi incredibili, vivido e denso di atmosfere rarefatte quanto potenti. Ero bendata, ma vedevo tutto quello che mi descriveva. Dopo venti minuti, la storia si è conclusa; quando mi sono tolta la benda ero sola in fondo alla stazione, su un binario vuoto. È stato come tornare da un’altra dimensione, che aveva altri orizzonti di riferimento e altre scale di grandezza. È stato un momento indimenticabile.

Un’esperienza percettiva acuta fuori dall’ordinario, che ha smosso emozioni profonde, semplicemente spostando di poco, e per poco, i miei confini, le coordinate di riferimento, le variabili di spazio e di tempo. Grazie alla sua storia, sono piombata nel mio immaginario, ho sentito scorrere sensazioni attraverso il mio corpo, dislocato in modo bislacco e non convenzionale nello spazio. Ho perso qualcosa per trovare qualcos’altro.

Il mio viaggio nel mondo di Marco Palladini è stato molto più lungo e a tratti molto più irto e solitario. A volte mi è mancato un braccio cui aggrapparmi. Ma credo che l’esperienza di perdita e di conquista che ne ho tratto sia simile alla piccola avventura vissuta al festival.

 

2. Walk the line

 

Dove mi trovo, qual è la direzione e la linea sulla route? Tutto è chaos, energheia e trans: gender, road, generation.

Mi rendo conto che scrivere circa l’opera di Marco Palladini produce la stessa sensazione che leggerla: una vertigine. Il passaggio dall’esame di questa opera ad una sorta di stesura scritta di una riflessione critica, è stato qualcosa di simile al parto. Si è trattato di un’esperienza non pacifica, piuttosto, per dirla alla Koltès[2], di un combat, qualcosa di fisico, e disorientante.

Se Marco Palladini (inteso come la sua opera, il suo immaginario), fosse un’architettura sarebbe labirintica, un dedalo, fatto da strade, piazze, viuzze, vicoli ciechi e palazzi sontuosi, stamberghe e bordelli, locali notturni, lune arabe e sobborghi africani e antichi ponti di pietra e discariche di immondizia. Sarebbe una città, di notte, qualcosa di pericoloso, dove la tensione è sempre alta e la provocazione costante; ma potrebbe essere anche la polis greca, con la sua agorà, il suo senso civico… oppure un’arena, con la sua lotta ferina e feroce. Sarebbe come il bar da Peppe lo zozzo. Sarebbe Roma, Las Vegas, Londra e Marrakesh…

Ho trovato le coordinate cercando tra la terra e il cielo, osservando ora l’orizzonte ora le vaghe stelle; infine ho percepito che tracce chiare e suggestioni precise guidano la mano di questo Odisseo, questo ‘politropon’ della scrittura, incessantemente attivo e fecondo; fili rossi e gomitoli di esperienze fisiche e metafisiche, reali o immaginarie, formano quindi il suo corpus poetico e teatrale, nutrono la sua opera, ma… Ma, io credo, per giocare a capovolgere parole sue, la linea non c’è. Non c’è mai fino in fondo, fino a un fondo, e questo a Marco, credo, lo fa godere non poco. Riemergo oggi da un viaggio sul pianeta Palladini e non so più dove finisce il suo mondo e dove comincia il mio. Come una magia scopro il mio sguardo deformante, che continuamente reinventa quello che vede, che legge, che sente. Come in un gioco di scatole cinesi, esploro l’opera di Marco e scopro che si veste di panni altrui e li fa suoi, inventa uno stile, una poetica, una cifra linguistica, un immaginario insomma, che all’inizio mi irrita, (forse è l’effetto urticante delle parole difficili, scomode, alte, incomprensibili, da cercare sul vocabolario, che stanano la mia ignoranza, e questo non è bello), ma poi mi aggancia, mi sfida ad aprire altre scatole ancora, ad entrare in quelle stanze; resisto, ma ad un tratto so che sono già dentro. A questo punto penso di poter finalmente stemperare l’oscurità e documentare, testimoniare, redigere una breve cronistoria, raccontare in modo il più possibile “corretto” di cosa parli l’opera di Palladini e con quali linguaggi lo sa fare.

Ad un tratto, tuttavia, qualcosa sembra impedirmi di poter redigere una compilazione della storia artistica di Marco Palladini in modo tradizionale diciamo; è il mio sguardo appunto, che non è neutro affatto. Anzi è deformante, è creativo; l’illusione, poi crollata, era quella di possedere un punto di vista “storico o storicistico” e quindi in qualche modo oggettivo, su questa materia. E però, io non credo a questa presunta oggettività, o neutralità, di analisi. Non credo di poterla possedere. Per questo motivo quello che seguirà è, dichiaratamente, un mio personalissimo contributo, soggettivo e itinerante, per quella che potrebbe essere una guida alla lettura, all’ascolto, alla visione, della scrittura di Palladini e in particolare, del suo teatro.

Non sono né una storica né una storiografa né una critica teatrale, o letteraria. Tuttavia, sono stata invitata a parlare, invitata a conoscere, esplorare e poi parlare, proprio perché non sono nessuna di queste cose, ma ho familiarità con tutti i sopraccitati mestieri; per formazione, per studio, per passione e per essere una persona che scrive.

Sono convinta, in effetti, che quest’ultima caratteristica abbia guidato le mie scelte su dove buttare lo sguardo, più di ogni altra considerazione.

Esattamente come alla stazione di Nettuno, con gli occhi bendati, ho perso l’orientamento e ho lasciato che le parole di Marco mi conducessero laddove vivono le sue idee, i suoi personaggi, le sue storie, le sue passioni, le sue ossessioni. L’opera di Palladini, mi ha contraddittoriamente e alternativamente, respinta e attratta, mi ha urtata e provocata, mi ha divertita e impegnata, in ogni caso, ha fatto risuonare corde profonde.

Il mio invito, perciò, è quello di partire bendati anche nella lettura di questo libro, nella speranza che lo sguardo sia disarmato e deformante; mi auguro che questa mia esperienza si trasmetta anche al lettore, che ne faccia a sua volta esperienza leggendo le opere di Palladini, alimentando un processo di trasformazione e trasmissione di idee, di mondi e immaginari, partendo appunto da uno sguardo creativo.

Il sapere e la conoscenza, che si nutrono di immaginazione, e viceversa. Un concetto obsoleto forse, ma mi pare che questa possa essere una responsabilità intellettuale e artistica cui è il caso di farsi carico con gioiosa serietà.

 

3. Palladini e son double, eventualmente son triple

 

Di Marco letterato e poeta si è detto molto e da segnalare è la sua incessante attività critica nell’ambito del teatro d’autore e di ricerca. Di notevole importanza culturale sono i suoi articoli e le riflessioni critiche, su artisti, letterati, poeti o teatronauti che siano, o che siano stati, filosofi o pensatori “sciolti”, da intendersi come cani senza guinzaglio o come chi della lingua ne fa gioco fluido, magmatico e svincolato, fuoriuscente, fuorviante, folgorante. Marco si interessa di chi sta fuori dal coro o chi sta a far da controcanto a quel coro, sia per il destino loro assegnato dalla Storiografia o per anomalia incallita o perché la retta via era smarrita.

I riferimenti culturali, i gusti artistici e le scelte poetiche di Palladini non sono perciò, ovviamente, casuali. Da Artaud e Brecht, da Emilio Villa e Gianni Toti, da Kerouac e la Beat Generation, e ancora Pasolini accanto a Marino Piazzolla o Leo de Berardinis accanto a Victor Cavallo, fino al lavoro, dallo stesso autore considerato il più importante di tutta la sua attività teatrica, ovvero la trilogia dedicata/ispirata al divin Marchese de Sade; tutto insomma testimonia non solo del vasto orizzonte di sapere (e di saperi) in cui si muove questo autore, ma pure della inclinazione e vocazione verso la ribellione, la provocazione, la ‘pulsione sovversiva’, che attraversa la sua opera e la sua vita.

Pulsione che è impegno e ricerca intellettuale ed è sostenuta sempre da un profondissimo senso politico ed etico, più che evidente in tutta la produzione di Marco Palladini. Cito una frase riferita al grande lavoro di ricerca e scrittura di Palladini sull’opera di Emilio Villa, che credo possa esprimere il senso che sottende al suo fare teatro: “nell’ambito del mio ormai lungo impegno vòlto a dare voce scenica a poeti sia italiani che stranieri per lo più ignorati o negletti o tralasciati dal teatro italiano (…), credo di poter rivendicare con legittimo orgoglio la realizzazione, in più edizioni, della  Litania per Emilio Villa, dedicata a quello che mi è occorso di definire ‘il più grande e insieme misconosciuto sperimentatore in versi del secondo Novecento italiano ed europeo’”.

Voglio far notare che qui Marco parla di ‘voce scenica’; in effetti Palladini crea le sue pièces a partire da testi filosofici, critici, poetici o teatrali in senso stretto, costruendo su essi la drammaturgia, la partitura scenica.

Dei suoi spettacoli teatrali si può parlare infatti sia di messinscene ‘classiche’, come ad esempio Me Dea (1991), AlterAzione (1991), Pithagora Iperboreo (1992), Giovanna: la Ballata degli Squali (1994), Musica Rock. Bitter Drinks… (1993), Serial Killer (1999), o i più recenti Satyricon 2000 – Tra scuola e bordello (2009) e Prometeo o il sacro fuoco di un dio minore (2009), che di spettacoli-concerto, letture-spettacoli o concerti-criminali come 12 Settimane a Sodoma (1992-93), Il rumore della notte (1995), o il work in progress su Kerouac, lavoro che da più di 15 anni ormai si declina tra poesia, musica e teatro, e Litania per Emilio Villa appunto, lettura-spettacolo strutturata a tre voci come con una vera e propria partitura musicale. Palladini trova quindi nella scena un altro luogo, ideale, nel quale dar voce viva e diretta ai suoi miti, alle figure ispiratrici, sulle quali forgia la propria poetica e dalle quali fa emergere la sua voce, che ha un timbro unico e personale.

Prima ispirazione di questo progetto, è stata la volontà di focalizzare l’attenzione sulla produzione drammaturgica di Marco Palladini, perché poco se ne è detto in effetti (anche se da voci autorevoli e profonde), rispetto alla sua attività di poeta, mettendo spesso a margine un aspetto del suo lavoro che, invece, a mio parere (anche a parere di Marco stesso), è di cruciale importanza ed è stato centrale nella sua attività di scrittore, e nella sua crescita di artista, almeno a partire dagli inizi degli anni Novanta.

A quell’epoca risale infatti l’incontro con i Krypton[3] di Giancarlo Cauteruccio che Palladini definisce come un incontro che ha segnato un momento inaugurale e seminale di viva e interattiva esperienza artistica. Per la compagnia scrive, su commissione, tre testi che saranno messi in scena tra il 1991 e il 1992: Me Dea – AlterAzione (Passaggi nel tempo) (1991) – Pithagora Iperboreo (1992). Il primo approccio alla drammaturgia avviene perciò col pretesto della scrittura su commissione, pratica che si ripeterà più volte nel corso degli anni successivi, e che si rivela proficua e stimolante; lo scrittore stesso la definisce pratica necessaria ad un autore per esplorare nuove vie espressive, capaci di saggiare la tenuta della sua scrittura. L’esperienza con i Krypton è assai positiva e il riscontro di pubblico e critica incoraggianti[4]: lo scrittore dalle versatili espressioni non smette più di scrivere teatro e, anzi, studia, si specializza, si confronta fisicamente con le tavole del palcoscenico e diventa sovente anche attore delle sue opere. Oggi giustamente Palladini si definisce, tra l’altro, ‘auttore’ teatrale.

Sì, perché Marco Palladini è molte cose, è scrittore a 360 gradi, è romanziere, poeta, critico, drammaturgo, scrive recensioni come radiodrammi, pratica, insomma, diversi generi di scrittura, ma la scena gli permette anche quella forma di espressione che passa attraverso il corpo, la voce, il gesto, i sensi. L’aspetto performativo della scrittura è una delle cose di cui abbiamo parlato io e Marco nelle nostre conversazioni, uno dei molti temi che abbiamo affrontato insieme, i cui risultati si sintetizzano in una lunga intervista. Nel porre le domande all’autore, al poeta, al performer, allo scrittore Palladini, ho concentrato l’attenzione su quelli che credo siano i fili rossi che attraversano tutta la sua opera e in particolare ho posto l’accento sulla drammaturgia.

Come ho scritto prima, centrale è l’impegno di Palladini nel trarre dall’ombra autori e opere altrimenti ignorate o poco valorizzate dalla Storiografia, con la S maiuscola. Questo è un impegno, e un merito, riconosciuto unanimemente da tutti coloro che hanno scritto intorno alla sua opera. Merito a mio parere, sommamente espresso nell’attività di “critico” teatrale, nella quale la capacità espressiva e comunicativa di Marco è leggera, libera da vincoli di presunta oggettività e, deliberatamente di parte, capace di restituire al lettore un’emozione e una memoria, dello spettacolo e dell’autore, o attore, preso in esame, del tutto soggettive e dinamiche.

Il punto di vista autobiografico, dichiarato per altro, si traduce in uno stile di scrittura randomico, istantaneo, e, come è stato sottolineato, aderente all’oggetto, che quindi diventa esso stesso linguaggio performante e ludico, senza però scadere mai nell’approssimativo o nel nebuloso. Palladini, al contrario, è rigorosissimo, e dal punto di vista intellettuale e da quello culturale, solo che al rigore aggiunge la brillantezza e la forza della soggettività creativa.

 

4. There is someone in my head but it's not me

 

Nelle opere teatrali la tonalità della scrittura cambia, si accentua, tocca punte di più cupa profondità, ma i temi di fondo si rincorrono come una staffetta in ogni suo scritto e si esprimono attraverso precise linee poetiche. A mio parere portante è l’aspetto della ri-scrittura, scelta poetica precisa e intimamente connessa alla scelta estetica dell’appropriazione dell’opera altrui. Mettere sotto i riflettori alcuni personaggi e autori e, ovviamente, il pensiero che essi portano in sé, significa per Marco, vestire i loro panni, o meglio travestirsi da loro, aggiungersi alla loro voce, calarsi in quelle identità, confondersi in essi, per incarnarne, letteralmente, i valori, le idee, lo spirito spesso eversivo e vitale.

Si tratta di una precisa scelta poetica, come dicevo, attraverso la quale Palladini si confronta con la tradizione affrontandola, io direi, di petto, in modo quasi carnale: ne coglie la materia organica viva e vi si intreccia scambiandosi con lei il calore del proprio corpo. La riscrittura in tal senso diventa un’azione critico-creativa che dà profondità di campo tematico e mitopoietico e, assieme, piena libertà di invenzione.

Per fare degli esempi più chiari posso dire che alcuni sono lavori di riscrittura drammaturgica tout court, ossia rielaborazioni di testi classici: Satyricon 2000 e Prometeo o il sacro fuoco di un dio minore (2009), altri lavori iniziali come Salomè. Memorie di una Incosciente (1989) derivato da Laforgue e Me Dea (1991) da Seneca e Apollonio Rodio, oppure i primi due testi della trilogia Destinazione Sade, ossia Justine. Il vizio della virtù (1991) e 12 settimane a Sodoma – concerto teatrale criminale per voce e percussione (1992-1993). Giovanna: la Ballata degli Squali (1994) ispirata a Brecht. Quelle invece che Palladini considera riscritture d’autore in tutti i sensi, sono le numerose partiture scenico-poetiche di cui parlavo prima: da L’io & dio - ou Monsieur Artaud et son double (1996) sull’idea artaudiana della cruauté,  alla Litania per Emilio Villa (2003), da Roma: città di pietra e città vegetale, un omaggio a Giorgio Vigolo (2004), a Il Vangelo secondo Pier Paolo, recital per Pasolini (2005), da Hudèmata Actàbat – suite nera, nata dall’opera Marino Piazzolla (2007) a Ballata del Futuremoto (o le visioni di un chaosmunista), lo spettacolo dedicato alle opere letterarie e video di Gianni Toti (2009).

“In questi lavori le parole del copione sono quasi interamente degli autori che attraverso e rimastico, ma al contempo il rimontaggio, la decostruzione e la ricostruzione infratestuale da me operata si configura come un atto critico-creativo assolutamente personale e autorale, come se proclamassi: Artaud, Villa, Pasolini, Vigolo, Piazzolla, Toti c’est moi.”

Lo spettacolo più emblematico da questo punto di vista è probabilmente 12 settimane a Sodoma (1992-1993). La riflessione intorno all’opera del Divin Marchese, conduce Palladini a toccare forse tutti i temi che più lo interessano e lo assillano come artista; la riflessione sfocia in uno degli spettacoli più importanti e intensi della sua produzione teatrale, la cui genesi e realizzazione sembrano attraversare Marco, uomo e artista, come una scossa tellurica, come un’esplosione la cui onda d’urto si fa sentire intensa, come esperienza estrema, fisica.

“Reputo, del resto, 12 settimane a Sodoma il mio testo teatrale più importante, anche perché l’esperienza della sua scrittura fu irripetibile.” Palladini si chiuse letteralmente in casa in una condizione di forzato isolamento, quasi prigionia, per riuscire ad immergersi fisicamente nella dimensione psicologica di ossessione sessuale e criminale ispirategli dalla lettura di Sade. Una situazione di clausura che andò avanti per qualche settimana e che produsse, a seguito di un’immedesimazione assoluta, appunto fisica, una drammaturgia potente, perfettamente in sintonia con la violenta visionarietà sadiana. Ulteriore suggello a rendere unica l’esperienza, fu, nella messinscena che ne fece lo stesso Palladini, la straordinaria interpretazione dell’attore ‘nero di Puglia’ Antonio Campobasso, ex-galeotto, e vero soggetto ‘borderliner’. Tutta la storia di quell’allestimento (1992-1993, raccontata al solito in modo avvincente da Marco nella nostra intervista), è segnata da oscure incomprensioni e inquietudini e sembra proprio avvolta fin dall’inizio dall’aura sadiana; lo spettacolo raggiunge, forse anche per l’insolita alchimia di singolari eventi che segna la sua genesi e la sua realizzazione, un altissimo livello di forte impatto, sia intellettuale che emotivo.

Nel pensiero radicale di de Sade, sta la violenza, sta il contrasto tra natura e cultura, sta l’eros e il thanatos, sta il bene e il male, sta il capovolgimento della visione antropocentrica delle filosofie della natura, sta il sesso “come spinta alla continuazione della specie in sé, ma anche come ‘produzione del nulla’. Questi punti cardine sono indagati, sotto diverse forme espressive, in tutta l’opera di Marco Palladini; circa il concetto di violenza l’autore ha esposto ampiamente il suo punto di vista: la violenza è un linguaggio, non il solo, ma fondamentale per capire le pulsioni profonde dell’essere umano.

Nell’opera di Sade “c’è la potente visione filosofica non consolatoria, antisentimentale, se vuoi estremistica, ma conoscitivamente feconda della assoluta amoralità della natura e, quindi, della natura dell’uomo. Sade comprende che il linguaggio del sesso è un linguaggio bellico, che nelle più diverse e perverse forme dell’osceno parla sempre il linguaggio della violenza, in perenne oscillazione dialettica tra pulsioni biofile e tanatofile.”

Mi sembra che le parole dell’autore rendano meglio delle mie l’importanza che ebbe quell’esperienza. Ho potuto vedere lo spettacolo solo in video, un video un po’ vecchiotto tra l’altro. La ripresa fu fatta al Festival di Santarcangelo del 1993. Purtroppo, il video (che già di per sé è una mediazione deformante), è di scadente qualità, ciononostante la potenza espressiva della parola, unita alla presenza portentosa di Antonio Campobasso, mi hanno colpita come uno schiaffo. Quello spettacolo tocca davvero un apice di rara intensità e, a mio parere, l’interpretazione di Campobasso, sostenuta dalla partitura musicale di Mariano De Tassis, (altra parte dialogante e fondante della mise en scène), non potevano rendere meglio le intenzioni dell’autore.

Tale fu l’identificazione tra arte e vita, che anche il rapporto tra Palladini e l’attore pugliese, risentì di quella incredibile tensione e asprezza che è nel dramma e si guastò, chiudendosi con un gesto estremo, quanto teatrale, come quello di piantarsi in asso nel bel mezzo della tournée.

La messa in scena della violenza nelle sue possibili diverse declinazioni, si vede già in Me Dea, del 1991, ma si rintraccia anche ne I vostri mostri vi danno il benvenuto a bordo (1994) – polilogo drammatico o in Giovanna: la Ballata degli Squali (1994) o ancora in Serial Killer (1999), in Rosso fuoco (2002), in Poesie per un tempo di guerra (2004), ne Lo spirito, la carne e il buio – Abu Ghraib memorandum (2005). E, infine, ovviamente, ne Il rumore della notte – concerto bellico poetico sonoro (1995), terza ed ultima pièce di Destinazione Sade, dramma “dove i bagliori eros-tanatofili del Divin Marchese si mescolano cogli scoppi di tragedia e le speculari infamie delle guerre di oggi e di sempre”.

 

5. Talkin’Bout A Revolution

 

Particolarmente queste messinscene “sadiane”, mi hanno fatto pensare alle atmosfere del punk, che, seppur non per precisa volontà dell’autore, si ravvisano nelle pièces, specialmente nell’ultima della trilogia. In effetti il legame tra musica e parola, tra musica e struttura drammaturgica, è un altro punto fondamentale nella scrittura di Palladini.

La musica è fondante negli spettacoli di Marco; che sia alla base della messinscena, come ad esempio in Trans Kerouac Road, o pensata da contrappunto dialogante, come in 12 settimane a Sodoma, o come suono che costruisce l’azione, come ne Il rumore della notte, oppure co-protagonista ispirante le tematiche e le atmosfere della storia stessa come in Musica Rock. Bitter Drinks… (1993), oppure ancora, vera e propria partitura come in Litania per Emilio Villa e in Ballata del Futuremoto. In ogni caso è sempre un elemento centrale.

Anche laddove non sia esplicitamente protagonista, non abbandona mai il percorso creativo dell’autore. (Non è un caso che Palladini sia tra i primi – se non il primo - ad avere inaugurato in Italia un rave poetico). Quando scrive, quando si dedica ad un progetto, insieme c’è sempre una colonna sonora che, se anche poi non entra direttamente in scena, ci si stempera dentro come suggestione invisibile, ma consistente. La musica rock è una compagna fedele di Marco Palladini e questa è senz’altro un’altra importante convergenza che esiste, sotterranea, tra i nostri due mondi e che allaccia a tratti i nostri immaginari.

Nel libro-memoir Non abbiamo potuto essere gentili (Padri, figli & guerre a seguire), in cui Palladini, racconta dei suoi anni di fuoco, ovvero gli anni di militanza politica nei movimenti extraparlamentari, dal 1970 al 1976 circa, l’autore si riferisce spesso alla musica, alla forza rivoluzionaria con cui la musica rock irruppe nella sua vita, oltre che in quella di un’intera generazione. Mi ha colpita molto una frase, in cui lo scrittore riferendosi all’anno simbolo della contestazione, il 1968, dice: “in quell’anno shock, forse il mio grande shock fu, da beatlesiano evoluto e pop-musicalmente corretto, la scoperta di Jimi Hendrix… il suono magico e very wild di quella chitarra distorta, il suo hard rock debordante e rigonfio di hybris, già intriso genialmente di noise-sound, rappresentò una vera folgorazione per il mio cervelluzzo e le mie orecchiette di rockettaro beneascoltante, dischiudendo orizzonti completamente inediti”.

Mi pare che questa sola affermazione la dica lunga, non solo della potenza eversiva che ebbe il rock in quel particolare momento storico, ma pure di come profondamente quelle scoperta, rivoluzionaria appunto, abbia formato, influenzato e informato di sé tutta la futura attività creativa di Palladini. In quest’ottica l’importanza della musica, entra coerentemente a fare parte di quel tratto, secondo me peculiare e profondo della poetica di Marco, che è il rapporto con la politica o il senso della politica.

Marco Palladini senz’altro è uno di quegli uomini che io definisco scherzosamente “ragazzi d’oltrecortina”; la sua formazione, la sua esperienza di militante e di ex-tremista di sinistra, mai arrivata alla radicalità della violenza terrorista, ma giuntavi molto di presso, è un aspetto della sua vita di cui ha raccontato più volte. Particolarmente toccante e comunicativo il libro sopra citato; toccante per come, a mio parere, sa comunicare quell’esperienza, regalando un affresco vitale, lucido e sferzante, di quegli anni italiani, e romani, anni di fuoco appunto. (Per cogliere la fusione tra militanza, amore libero, rock’n’roll e rivoluzione, andate a leggere come l’autore descrive una manifestazione politica, “erotizzando” il corteo, con la sua fisicità e il suo ritmo: davvero notevole!). Per quanto sia un racconto autobiografico, non è mai retorico o banale, è invece interessante, avvincente.

Palladini possiede un profondo senso etico, almeno io credo sia qualcosa che traspare ed emerge evidente in tutto il suo teatro, in tutta la sua scrittura; e così per sua stessa ammissione. In questo senso ragazzo d’oltrecortina, cioè tutto di un pezzo, qualcuno che nonostante tutto non si fa vincere completamente dalla passività e dalla rassegnazione cui sembra doversi piegare dinnanzi a questi tempi bui, dinnanzi alla banalità del male. Ecco che quindi nel corso degli anni passa dalla militanza politica a quella poetica. Un idealismo forse, una vis polemica, una forza propulsiva comunque, che si trasferisce dall’utopia della rivoluzione “armata” a quella della rivoluzione culturale, intellettuale, al credere, nonostante tutto, al potere dinamico e vitale del pensiero, alla potenza irriducibile della creatività.

Tale forza e propensione ad essere contro, a stimolare strenuamente l’attitudine al pensiero critico, è perciò centrale nella scrittura tutta di Palladini, ma esistono dei testi teatrali dove la spinta verso una “dimensione etico-critica” si fa più dichiarata come nei già citati 12 settimane a Sodoma e Il rumore della notte, e il dramma Serial Killer, “vivido sguardo sulla natura criminogena dell’uomo”. Poi Giovanna: la Ballata degli Squali, liberamente tratto da “Santa Giovanna dei Macelli” di Brecht, dramma che l’autore struttura “come una dialettica ‘favola sull’attualità’, inscenata nel 1994, dunque proprio all’inizio dell’era berlusconiana, profeticamente riverberata nel testo nella figura dello squalo capitalista Kap”. Ancora: Poesie per un tempo di guerra e Lo spirito, la carne e il buio – Abu Ghraib memorandum, che rappresentano entrambi una riflessione sul XXI secolo, “in cui siamo entrati aprendoci le porte con l’attentato dell’11 settembre 2001 e in cui sembriamo vivere in uno stato di perenne destabilizzazione e precarietà, in un clima di caos e incertezza globale”.

Aggiungo ultimo, ma non ultimo: Rosso fuoco, che è una ‘narrazione teatrale’ della vicenda di militante, parallela al libro già citato, Non abbiamo potuto essere gentili; sulla genesi e la complicata e successiva realizzazione di questo dramma politico del 2002, Palladini mi ha parlato ampiamente nelle nostre conversazioni[5], e credo che l’inizio della storia testimoni di quella integrità e onestà intellettuale che, seppur partigiana (e perché no?), contraddistingue questo scrittore; Palladini infatti decise di raccontare delle lotte politiche di quegli anni, assieme ad un militante della parte opposta, il fascista Miro Renzaglia, un ex attivista del Msi. Primo e unico esempio in Italia di memoir scritto “a quattro mani in cui un militante della sinistra comunista rivoluzionaria e un militante fascista incrociavano i loro antitetici ricordi e si interrogavano e si confrontavano su un decennio storico-politico in cui si è combattuta una sorta di seconda ‘guerra civile’ a cosiddetta bassa intensità, ma con una scia di morti da una parte e dall’altra non proprio irrilevante (parliamo di centinaia di persone uccise)”[6].

 

6. Because the night belongs to lust

 

Penso che sia questa spinta etica profonda, questo fuoco che brucia dentro all’uomo Palladini, a sorreggere il poeta, lo scrittore, ad indurlo a muoversi sempre un po’ più oltre al limite, che lo spinge a volere incontrare esseri pensanti, “che siano a disagio con la civiltà”, a usare la scrittura come esplorazione delle zone oscure, scomode, difficili o dolorose, misteriose dell’essere umano. Palladini sperimenta in modo impavido tutto quanto sia possibile in merito al linguaggio; potrebbe essere lo scienziato pazzo della parola, chiuso nel suo laboratorio a fare esperimenti su esperimenti sul dna della parola, per riuscire a carpirne l’inafferrabile segreto. Ho interrogato Marco sul senso profondo della vena provocatoria, che irrora il suo linguaggio estremo e, a tratti, estremamente urticante, e la conclusione porta comunque, concentricamente a questo punto di partenza e di approdo: stimolare riflessione sui sensi più profondi, della nostra natura umana, della storia, della vita, significati che attraverso le parole possono essere rivelati, svelati, ipotizzati, inventati trasmessi, comunque stuzzicati ad uscire allo scoperto.

Per la scelta dei suoi temi, ma soprattutto per le ambientazioni, e la galleria di personaggi che le abitano, Palladini mi ha fatto spesso pensare a Bernard Marie Koltès. Nonostante e per stile e per forme espressive siano lontani, io li vedo vicini nel loro amore per i condannati, siano essi personaggi immaginari (Koltès) o personaggi reali (Palladini); essi hanno interesse per le persone giudicate pericolose, o che non hanno voce, che non hanno nome, che non hanno un posto nella storia, ma che toccano, per la loro fulminea, fisica, spiazzante intensità e per non avere paura nell’accostarsi all’abisso, al contrario per attraversarlo (per scelta o per forza) con una inarrestabile, tragica vitalità. Entrambi parlano della forza del Desiderio come motore della vita o della morte, e lo fanno spesso dialogando con i più grandi scrittori, artisti, filosofi di tutti i tempi e di tutte le latitudini.

Entrambi ci catapultano spesso nella città di notte, che associamo spontaneamente a immaginari di metropoli contemporanee, siano esse le luci che emergono improvvise dalle lande americane solcate e trascritte da Jack Kerouac e la Beat Generation o la ipotetica Sarajevo in guerra de Il rumore della notte o la buia città attraversata a piedi dal dealer e il compratore de La solitude de champs de coton di Koltès. Ci parlano del nulla, del vuoto. Come del vuoto e del nulla parla il Marchese de Sade, ma anche il Buddha Shakyamuni, come si può ben supporre con presupposti culturali di partenza assai diversi, ma spinti forse dalla medesima istanza di conoscenza e di assoluto, proprie dell’homo sapiens sapiens. Ma queste sono solo suggestioni.

Certo è che in tutta l’opera di Marco si rintracciano tantissimi rimandi ad autori, a opere, le più diverse, liquidi accostamenti e riferimenti culturali che si anticipano e si susseguono, alle volte senza nemmeno saperlo, in modo concentrico. In questo senso la sua scrittura mi pare circolare, ma a formare una spirale che mai si chiude o mai vorrebbe fermarsi. Mi sembra, infatti, che sotto alla vulcanica produttività di Palladini, dietro alla sua dinamica quanto incessante esplorazione di tematiche ricorrenti e al suo tornare ai maestri ispiratori, vi sia un’ansia, tutta umana, di fermare il tempo, di cogliere nell’istante, l’eterno. Del resto, questa è un’istanza che io credo radice di ogni forma di scrittura, se non di arte. Il processo stesso di riscrittura ha un’intima connessione con il tempo e con la memoria, intesa come un camminare a ritroso sulle proprie orme, per ridisegnarne i confini ogni volta, una memoria benjaminiana, che in qualche modo ricrea se stessa. Da questo punto di vista ravviso una sotterranea spinta che porta al confronto costante con personaggi dimenticati, non testimoniati, di cui non si ha abbastanza memoria appunto. E vedo un legame col Divin Marchese e con la sua abilità di condurre a fissare l’abisso, con disperato disincanto. In questo senso l’esplorazione sadiana del corpo, mi pare si possa leggere come metafora della ricerca del senso, o di un senso, della vita.

Cercare di afferrare il mistero della vita e della morte, andando oltre, oltre ad ogni limite, fino al crimine. In Sade il corpo viene letteralmente, aperto, esplorato in ogni anfratto, penetrato fin dove si può e fin dove non si può - ma questo, aldilà di ogni considerazione culturale o letteraria, a me pare che parta dal presupposto che il corpo stesso sia considerato un contenitore. Presupposto contestato forse dal Marchese, ma cui si fa ritorno. Per mostrare a tutti che l’anima non esiste forse? Come a dire, ecco ora che ho buttato fuori tutto, ora che ho scorticato il corpo, l’ho svuotato dei suoi umori e l’ho sezionato, ho visto, e so che dentro non c’è nulla. La violenza e la corporalità estrema si intrecciano e sono dunque alla base di riflessioni che io trovo interessanti, addirittura fondamentali. Voglio però chiudere questa riflessione con una piccola considerazione.

Chiedendomi cosa mi disturbasse tanto in questo particolare lavoro di Palladini (la trilogia Destinazione Sade, appunto), mi sono risposta (a parte l’ovvia ripugnanza per tanta violenza), che forse, molto banalmente, è l’irriducibile dualità che da l’autore mi separa, che separa il maschile dal femminile. Con questo non mi addentrerò in territori scivolosi e sentieri sconosciuti. Molto semplicemente mi è parso che la visione palladiniana/sadiana del corpo (inteso sempre come metafora dell’esistenza), sia molto “maschile”, ovvero abbia in sé quella contraddittoria pulsione vitale e distruttiva al tempo stesso, che è tipica della nostra cultura, diciamo occidentale e patriarcale, e che nella ricerca disperata del noumeno ha costruito imperi e tecnologie esorbitanti, lasciando dietro sé, nel frattempo, anche immani scie di sangue.

La disperazione di cui parla Marco mi sembra si trovi proprio qui. Da una parte ci si sente alleggeriti nella consapevolezza che polvere siamo e polvere ritorneremo, dall’altra si condanna una dinamica il cui istinto di partenza appartiene, però, a tutti: l’istinto di sopravvivenza. Questa consapevolezza, ed eterna contraddizione, genera terrore e impotenza, e dall’impotenza si genera la violenza, il bisogno di prevaricare, per ingannare la paura.

Non dico che il femminile sia privo di orrore o crudeltà, né dico che sia per forza una categoria di genere - ma, come dicevo, banalmente, la donna ha un corpo diverso, non idoneo a penetrare, ad aprire, a divellere, meno adatto a prevaricare e sicuramente predisposto a generare la vita. Detto così suona davvero biblico, tuttavia resta una possibilità che offre al femminile una visione differente di questo benedetto mistero della vita e della morte. C’è la possibilità, infatti, di non dovere carpire ad ogni costo il segreto delle cose, ma solo rispettarne la natura inafferrabile. Non potendo avere l’immortalità, si può proteggere il corpo/vita, invece di farlo a pezzi, in nome di quell’illusoria quanto nociva convinzione di poterne arrestare l’autonomo divenire...

Ma, come dicevo poc’anzi, è solo una breve considerazione su possibili visioni e conseguenti poetiche che si generano dal nostro atavico terrore della finitudine.

Mi chiedo infine se questa suggestione, c’entri in qualche misura con il fatto che tra i vari ispiratori e maestri di Palladini non si annoveri, tra le più importanti almeno, una voce femminile letteraria o teatrale (ma musicale sì). Di questo ancora non abbiamo parlato.

 

 

7. This is (not) the end, beautiful friend

 

Marco Palladini continua a lavorare, incessantemente; scrive, ancora una volta su commissione, un dialogo ispirato al Paradiso di Dante (Dialogo senza certezze su “l’amor che move il sole e l’altre stelle” 2010), progetta un’opera da/su Céline (chiusura di un ideale trittico di ‘maudits’ partendo da Sade e passando da Artaud), mette in scena Il Vangelo secondo Pier Paolo – Partitura scenica da Pasolini, in occasione dei 35 anni dalla scomparsa di Pasolini, cura rassegne di rave poetici e musica dal vivo, organizza convegni sulle “Riviste, editoria e scritture nella rete” (marzo 2011), mette in scena altri lavori sulla Beat Generation, recensisce spettacoli e opere on line… insomma una forza inarrestabile.

La ricerca, dunque, non si ferma, procede feconda sui solchi di una poetica precisa, strutturata, dalla sigla ormai familiare per me. Ora riconosco lo stile Palladini, inconfondibile, nel bene e nel male. Sempre proiettato in avanti, anelante l’ignoto. La sperimentazione meticolosa, spregiudicata, ossessiva, spesso fa sì che il linguaggio palladiniano esploda in faccia al lettore, allo spettatore, e produca una provocazione, uno shock, che mai è fine a se stesso. A questo scopo Marco Palladini chiama a raccolta i suoi maestri, le figure cui si ispira e a cui ritorna più e più volte, a questo scopo si interessa di personaggi minuscoli, a questo scopo inventa un linguaggio vitale e dinamico, che sa essere onirico quanto organico, aulico quanto trash, mitico e contemporaneo, cupo quanto ironico, violento quanto nostalgico.

Un linguaggio, insomma, aderente alla vita e alle sue pulsioni profonde che, si sa, sono terribili, meschine e grandiose al tempo stesso. Che dire infine per chiudere questo discorso? Sono uscita, a rimirar le stelle.

Buon viaggio a tutti.

 

 

 

 

[1] Roberto Sànchez-Camus, Topografie invisibili, Festival Rifrazioni, Anzio e Nettuno 2010

[2] Bernard Marie Koltès – (Metz, 9 aprile 1948 – Parigi, 15 aprile 1989) - drammaturgo francese

[3] I Krypton sono una compagnia teatrale italiana fondata a Firenze nel 1982 da Giancarlo Cauteruccio e Pina Izzi: “La compagnia basa la sua poetica sulla ricerca tecnologica e la sua applicazione nella scena e nelle arti, approfondendo le relazioni tra il corpo teatrale e gli apparati tecnologici linguistici audio-visuali, creando pionieristicamente spettacoli affidati ad elementi scenografico-visuali in spazi virtuali. Una parte importante del loro lavoro è poi costituito dal Teatro Architettura, ossia l’inserimento di spettacoli e scenografie in luoghi urbani preesistenti.” (Wikipedia).

[4] A proposito delle messinscene dei Krypton delle tre pièces di Marco Palladini, l’autore stesso ne scrive in un breve ma illuminante articolo, che bene restituisce a chi non ha potuto assistervi, l’atmosfera ‘apertamente visionaria’, che l’apparato tecnico e la regia di Cauteruccio avevano creato soprattutto nella Me Dea. Un trittico teatrale all’incrocio tra poesia e tecnologia.

[5] Vedi intervista

[6] Idem

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