Anno VIII - Numero 1/2022
divieto di sosta
fu come un passaggio a nord-ovest: poi vennero gli anni
dell’obbedienza (il fuori tempo massimo, l’abbraccio
arroventato) e quasi tutti furono contenti: i cani nel canile,
il fieno nel fienile, la rena sull’arenile dove i vetri
diventano sassi di mare
poi fu come l’attrito di una colpa, la proposta di vendette
contro ignoti e degli aggiornamenti teologici: il disappunto,
non trovando espressioni adeguate, finì col tradursi
nell’inglese degli aeroporti
fu, infine, il divieto di sosta, delle astuzie cadute nel grembo
di un’ansia, di una luna permalosa, dei singhiozzi a metà
prezzo di chi, scabro ed essenziale, deglutiva grammatiche
inevase, piccoli calvari a go go
chaplinesca
se qualcosa conta, oggi, è l’idea dell’ubi consistam,
del vestito chiaro, la mattina, fumo di Londra la sera,
e magari, per cena, lo smoking, come nei film muti, dove
andirivieni è lo stesso che non ancora, e uno dei pugili
è nascosto dietro l’arbitro, mentre l’avversario che lo cerca
per cazzottarlo, gli sta di fronte, e allunga il collo e tutti
e tre si muovono all’unisono, un po’ a destra e un po’
a sinistra, fino a quando i contendenti fanno un mezzo
giro, e le loro posizioni, diametralmente rovesciate, ora
le sostiene un forte con brio, tripudio di agilità e paura,
di grafica e occultismo per cui rifiorisce il riso sulle labbra
dei neofiti, dei vedovi, dei divorziati, e degli schiavi addetti
ai lavori agricoli pesanti dai quali, scrive Thomas Jefferson,
si devono sempre escludere le donne, i vecchi e i bambini
omaggio a Ezra Pound
io dò ragione a Pound quando scrive che uno stato
se sostiene di non avere i soldi per costruire strade
è come se dicesse di non poterle fare per mancanza
di chilometri. E lascio dir li stolti, che ferman sua
oppinïone prima ch’arte o ragion per lor s’ascolti.
S’intendono meglio d’inverno le grida incenerite
di chi non si dà pace, conta ogni gradino, e procede
sulla via di Damasco, perseguitato dalle ali disgiunte
di un disegno redentivo: se aumento rimandi a digiuno,
e letargo a voglia di scommessa, a crimine premeditato,
o, faute de mieux, a equazione fraudolenta di reddito
e finanza. Ancora di più gli dò ragione se come acqua
mischiata di bella neve sollecita anime intorpidite
da un’illibata pulsione di morte all’onere di un ferma-
immagine, di un plusvalore impervio, lungamente
atteso e rapinato, che manda secondo ch’avvinghia
hic manebimus optime
a Cesare D. M.
primi anni sessanta, sole invernale, domenica mattina.
Tra l’Hudson e l’East River una brezza promette mari
e monti. Times Square, sguardo fisso al fumo che esce
da una bocca gigantesca: la reclame delle Camel.
Grazie a questa inquadratura l’immaginativa organizza
la propria passione secondo il ritmo di un’infedeltà
che non tradisce, ma suscita un allarme che ha smesso
di corrispondere alle proprie esalazioni, che trattiene,
con un sotterfugio, la propria disinvoltura. Siamo oltre
il troppo umano, in uno spazio dove le parole non hanno
né qualità né voglie insolute, né proposte simboliche.
Mezzo secolo dopo: “Siamo caduti nella bonaccia
che narcotizza gli spasimi al neon di Lucio Fontana”
di una riunione al vertice
“tutte cazzate”, gracidò il poeta Elio Pagliarani alla fine di un incontro consultivo alla Farnesina (l’Italia ha un ministero degli esteri con migliaia di funzionari d’ogni grado, d’ogni forma e d’ogni età, ma tutti, a guardar bene, cives romani, di fede, o di cuore e, ben inteso, di volontà) al fine di studiare nuovi approcci [sic] per diffondere negli USA qualche lacerto culturale prodotto nel nostro paese che in fatto di lacerti culturali non è secondo a nessuno. Un poeta, è chiaro che ci voleva, e d’avanguardia per giunta, senza peli sulla lingua, e passi che il packaging della cultura non era il suo forte. Che bell’idea però, questa dell’export in un paese specializzato in import! Ma i quattrini che il MAE spende per garantire l’insipienza degli artropodi di stato (alcuni dei quali estinti), non sarebbero meglio impiegati per trattenere le nubi che fumano, dai tempi dell’arduo Carducci, sull’Appennino? Irrinunciabile Paglia, per non arrendersi all’idea che i marxisti abbiano cessato di evolversi, e debbano quindi sparire, sarà utile porgere orecchio al contubernale risucchio di qualche tuo celeberrimo furore: “Ogni volta che dio sta per punire i peccati del mondo manda avanti la parola”. E soprattuto “Tommaso Muntzer disse che cacava addosso a quel Dio che non parlava con lui”.
coro dei pensierosi
una volta per sempre santi Feech e Tour, e Cosma
con Damiano, Corona con Vittore, Filemone con
Appia, Melasippo, Cassina, Epistème, e in più
Galazione, nonché – martiri insieme ai figli Aradio,
Evodio, Callisto, Felice, Eufemia e Primitiva –
Atanasio e Teòpista. Davanti a tale pistis chi vuoi
che pensi a Priamo, a Ecuba che si muta in cagna e nuota,
per darsi sepoltura, fino all’Ellesponto dove anche
il piloto del Pindemonte drizzò l’antenna? O a taxi,
da Franz von Taxis, ministro delle poste di Filippo
di Borgogna, di lontane origini bergamasche come
Torquato Tasso, o da taxis, a sua volta da τάσσω,
nel senso del disporsi secondo un ordine, in vista,
mettiamo, di una battaglia, e oggi ridotto a viaggio
che, anche se disordinato, merita un augurio: kalò
taxidi. E però attenti a Scilla, a Cariddi, ai lestrigoni,
ai lestofanti! E poi al treno, al cane, ai mesi con la erre,
ai camion in uscita, ai carichi pendenti, alle insidie
velenose di un voto sprecato, di una tregua immatura
che degenera in salmodia, in autodafe, nel miraggio
di un lavoro che se uno ce l’ha deve tenerselo stretto
coro degli impensieriti
c’è chi dice “ma figurati” e si spella gli occhi in cerca
di conferme: alcuni aggiungono “amen”; altri,
più smaliziati, “come mai?”. Qualcuno bussa
a invisibili porte e, nella prestanza degli anni,
si fa guidare dal tonfo di una pietra nel pozzo
o di un corpo che cade nella foiba. Torturato
dalle mormorazioni, c’è chi guarda il cielo
coprirsi della cenere randagia delle ali a gabbiano
degli Sturzkamp in picchiata. Chi ha perduto il
punto di fuga, lo abbatte il dio degli alveari,
delle mani giunte che cedono al pudore, il dio
delle aziende, dei tuguri, delle gambe accavallate.
Chi scantona, lo perseguita il dio degli azzeramenti,
dei “vedremo”, dei rammendi, degli odori stantii
se
se i vagoni, a contarli, ti viene pacco, posta, visita
o partenza, e se la fame è oscura, e qualcuno magari
se la fura, come il vexillum con cui Cordelli giura
di aver turlupinato una prof. di latino attribuendo
ai nipoti di Romolo il gioco del rubabandiera: se il
nostro treno è già una mongolfiera, una vela che ci
disvicina, e sballotta e ci schiuma, e forse ci aduna
nella piazza dei bersaglieri che correndo suonano
“Garibaldi fu ferito / …in una gamba”: prigionie
che sono state il mascàra ossessivo dell’assoluto,
di un quadrato svedese in cui tirano a campare sia
l’odio dell’uomo per l’uomo , sia l’amore che muove
il sole e l’altre stelle: se quel piatto di sale davanti
all’uscio di casa, quell’odore spiombato di fresco,
ma sì, se la penna sul cappello che noi portiamo,
se l’ultimo guado è derelitta sineddoche a minore
a un passo, un tiro di schioppo, a un’ora di marcia
a un passo, un tiro di schioppo, a un’ora di marcia
dall’inizio del sentiero: è lì che incomincia la lusinga
che consola gli afflitti, sopporta con pazienza
le persone moleste, dà da bere agli assetati, veste
gl’ignudi e, riflettendo su improbabili premesse,
seppellisce i morti.
È il regno del fuori catena, dell’operaio che conosce
tutte le fasi del montaggio e ti da il cambio, o in caso
di palese violazione (o errata sillabazione) ti denuncia.
Non vi aleggiano domande che inducono al perdono,
consigliano i dubbiosi o curano gl’infermi, o visitano
i carcerati.
Dell’albero carbonizzato bisogna indovinarne il genere,
la specie, l’ordine e la famiglia, prima di fare il nome
di chi vi è stato impiccato, e da quale ossessione
fosse circondato: adesso sì, adesso no, fino alle balaustre
della profezia e oltre, fino a Hic sunt leones. “Anche
lei reziario?” “No, hoplomachus”, e poi con una punta
d’invidia, “però a volte sannita, o senzatetto”